Intervista a Lunia, la femme au col blanc

di Aldo Santini

La Femme au col blanc, Amedeo Modigliani

La modella e l’amica, la confidente di Amedeo Modigliani, aveva 97 anni ed era fragile come una farfalla, però la notizia della sua scomparsa, che ho ascoltato mercoledì scorso dal giornale radio del mattino, mi ha profondamente rattristato. Non solo perché con la morte di Lunia, questa dolcissima superstite della «belle époque» parigina, si chiude il romanzo di Modigliani, ma soprattutto perché Lunia era un personaggio limpido e pulito. Onesto. Andai a trovarla nel luglio 1985, mentre preparavo la biografia su Modigliani. Mi facevano da guida i fratelli Guastalla, gli editori livornesi delle memorie della figlia del pittore. Lunia abitava in una stanza all’ultimo piano di un palazzo della vecchia Nizza. Era poverissima ma dignitosa. Quella stanza brillava di rettitudine morale. E lei era un prodigio di lucidità. Aveva gli occhi freschi, di un celeste pallido, il sorriso lieve. Il suo sguardo era giovanile. Aveva sempre rifiutato di autenticare i falsi di Modigliani che le venivano sottoposti. E di lasciarsi intervistare. Aveva acconsentito a ricevermi, uscendo dal suo silenzio, «perché lei è livornese, so che ha criticato lo scherzo delle teste lanciate nel Fosso Reale dagli studenti, e perché ora si parla di un nuovo film su Modigliani. Speriamo che si migliore del primo». Il film, invece, è stato di gran lunga peggiore di quello interpretato da Gérard Philipe e ci ha dato un Modigliani offensivo per la sua memoria e per la sua arte. La testimonianza diretta di Lunia acquista perciò grande valore. Ecco il nastro dell’intervista, arricchito con le poche pagine scritte da Lunia.

Quando ha conosciuto Modigliani?

Fu a Parigi, nel 1916. Era giugno, lo ricordo bene. Io ero arrivata da Varsavia a diciotto anni, con una coppia di amici di famiglia. Mi ero sposata con un mio connazionale nel 1914, in Saint-Germain. Czechowska è il cognome di mio marito, polacco anche lui. E scoppiata la guerra ero rimasta in Francia. Fu Zborowski, il suo mercante, che mi condusse insieme a mio marito a una mostra di Modigliani e che me lo presentò il giorno stesso, nel caffè de la Rotonde, in piena Montparnasse. Mio marito si era arruolato tra i volontari ed era in licenza. Sedevamo a un tavolo con altri amici, sulla ‘terrasse’. C’era anche Kisling, Zborowski mi aveva appena detto: ‘Modigliani è un grande artista. Peccato che non gli possa pagare uno studio per farlo dipingere in pace’, quando dall’altra parte del bouvelard apparve una specie di muratore, con un abito di velluto consunto, un ampio cappello nero, la vita stretta da una sciarpa di lana rossa. Era Modigliani…».

Vestivano proprio così i muratori di Parigi?

«Non so perché ebbi l’impressione che fosse un muratore. Fatto sta che attraversò il boulevard, venne verso di noi, si tolse il cappello, salutò tutti alla voce e a me disse ‘Modigliani’, dandomi la mano. Aveva un’enorme cartella da disegno sotto il braccio. Fui colpita dal suo portamento distinto e dai suoi occhi, dalle sue mani, molto belle. Era molto semplice e, insieme, come dire?, molto nobile. Un uomo diverso da tutti quelli che conoscevo. Si mise a sedere accanto a me e volle subito ritrarmi. Per fare colpo, pensai. Disegnava velocemente. Con un segno unico, senza pentimenti. Il suo segno magico. «Avevamo già combinato dove mangiare e quando il ‘muratore’, che non lo sapeva, mi invitò a cena, glielo dissi. Il che non lo impressionò nemmeno un poco. Insistette. Io ero molto imbarazzata e alla fine, per essere chiara, gli parlai di mio marito che era nella comitiva. ‘Vieni anche tu’ gli propose Zbo. Modigliani rispose di no, bruscamente. Contrariato si alzò, invitandomi a posare per un ritratto a olio, da Zborowski. Mi dette il disegno, dopo averlo firmato. E partì. Zbo mi spiegò che di regola Modigliani donava i disegni, però non li firmava. Una volta una signora insistette per avere la firma. Modigliani scuoteva la testa. ‘No, no!’ ripeteva. Ma quella non mollava. Sa cosa fece Modigliani? Prese il disegno e ci vergò una firma grande come il foglio, distruggendo in pratica il ritratto».

E lei posò per Modì, l’indomani?

«Sì, con il permesso di mio marito, nel piccolo appartamento di Zbo in un alberguccio del boulevard di Port-Royal. Modigliani impiegò tre sedute per completare quel mio primo ritratto a olio. Gli accadeva di rado che impiegasse tanto tempo. In genere gli bastava una seduta. Zbo commentò che io lo avevo affascinato. Allora non pensavo che quello sarebbe stato il primo di una lunga serie di ritratti». E Modigliani come si comportò? «Come se io non fossi esistita. Io persona, voglio dire. Per lui ero solo una modella. O meglio, ero la sua donna ideale, l’ho compreso in seguito. Accese una sigaretta. Si versò della grappa. Parlava da solo. E in italiano. Alla seduta del giorno dopo seppi che recitava dei passi della ‘Divina Commedia’. Dipingeva in maniche di camicia e con una tale violenza che, all’ultima seduta, la tela gli cadde sulla testa, nel momento in cui si chinava in avanti per scrutarmi meglio. Io saltai dalla sedia, spaventata. Confuso, Modigliani mi sorrise con dolcezza, e cominciò a cantare delle canzoni. Sempre in italiano. Adorava l’Italia e la sua città, Livorno, ma diceva che nel suo paese non lo apprezzavano. C’è un particolare inedito a proposito di questo primo ritratto». «La tela finì per cadere sul pavimento. E sul pavimento c’era un fiammifero di legno bruciacchiato. Il dipinto era freschissimo, è logico, e il fiammifero si attaccò al quadro. Modigliani non volle toglierlo. C’è ancora. Il ritratto è al museo di Grenoble».

Ho letto che Modigliani s’innamorò di lei a prima vista

«Penso che sia vero. Ma io precisai i miei sentimenti. Ero innamorata di mio marito, che poco dopo tornò al fronte e fu dato per disperso. Di Modigliani rimasi amica, la più vicina, la più affezionata. Hanno scritto che ho posato nuda, per lui. Falso. Per i nudi si serviva delle modelle professioniste e solo di loro. D’accordo, la famosa Quique non era una modella, era una prostituta, e con lei Modì ha fatto vita comune per qualche giorno, ma questo non cambia la sostanza delle cose. Le modelle, a quei tempi, costavano cinque franchi per seduta. Lui ne riceveva quindici ogni mattina da Zbo, il suo mercante. Zbo non era ricco e non riusciva a vendere i quadri dei suoi pittori, o li vendeva a prezzi stracciati. E quindici franchi erano molti per le sue tasche. La moglie lo rimproverava di continuo».

Modigliani beveva molto?

«Beveva, ma non era un ubriacone. E nemmeno un drogato. La leggenda di Modigliani tossicomane è inventata. Mi spiegò che era stata la sua prima donna parigina a farlo drogare. Droga leggera. Hashish. Quando lo conobbi non prendeva più l’hashish. E di preferenza beveva il vino rosso. Ma non era condizionato dall’alcool. Voglio dire che l’alcool non era la sua musa. Non aveva bisogno di bere per dipingere. Gli ho visto dipingere dei capolavori senza bere un goccio di vino. Ma era di salute delicata. E beveva quando non stava bene. Il vino lo aiutava a star su».

Comunque il suo amico Utrillo, detto «Litrillo», era una spugna

«Cosa significa? Utrillo era un alcolizzato e Modigliani no. Povero Utrillo. Era delizioso. Indifeso. Nel 1916 lo avevano chiuso in una casa di salute, una specie di orribile prigione. Andavo a trovarlo con Zbo e sua moglie. Guai a portargli del vino: ce lo confiscavano. Aveva un cavalletto e dipingeva le vedute di Montmartre ispirandosi alle cartoline illustrate. Ma senza vino impazziva. Una volta riuscii a nascondere una bottiglia e gliela consegnai. L’afferrò con le mani che tremavano. Gli tremavano al punto che la bottiglia cadde e si ruppe. Utrillo si gettò in terra leccando il vino che scorreva».

Quanti ritratti le fece, Modì? E quali preferisce?

«Quattordici a olio e un’infinità a matita. Quale mi piace di più? Vede, tengo una sua riproduzione nello scaffale dei libri. È quello di profilo, con il collo lungo. È celebre. Lo dipinse nel 1919. Conservo anche un manifesto che appesero nei tram di Milano quando dedicarono una grande mostra a Modigliani, nel Palazzo Reale. Il mio ritratto era il simbolo della mostra; e posso dire con orgoglio che è anche il simbolo dell’arte di Modigliani. Sa quanto impiegò per eseguirlo? Soltanto due ore. Era in stato di grazia. Ricordo che Zbo guardava dal buco della serratura».

Modì non voleva testimoni, mentre dipingeva?

«Assolutamente no. Ero io, di regola, che mi mettevo di guardia della stanza dove lavorava, in casa di Zbo, per impedire l’ingresso ai suoi amici, soprattutto mentre dipingeva i nudi. Ma un pomeriggio Zbo eluse la mia sorveglianza e con una scusa entrò. La modella era una splendida ragazza bionda. E Modigliani fece una terribile scenata. Cacciò la ragazza e dette furibondi colpi di pennello sulla tela. Voleva distruggerla. Riuscii a salvarla per miracolo. Era il ‘nudo rosa’, che poi fu acquistato da Francis Carco, lo scrittore».

In un certo senso lei era la protettrice di Modì

«Eravamo molto legati. Ricordo le nostre passeggiate nel Giardino del Lussemburgo. O quando mi portava al cinema. O la volta che andammo a vedere La Goulue, la modella preferita di Toulouse-Lautrec. Ne aveva di cose da raccontarmi. Di Livorno, della sua vita di ragazzo, di sua figlia Giovanna».

Dunque aveva già conosciuto Jeanne Hébuterne? Che tipo era?

«Era molto bella, molto dolce, molto magra, molto timida, molto cattolica. Suo padre era un professore e la ostacolò molto. Unirsi con un artista! Con un ebreo!».

Modì passeggiava con lei e non con la sua donna? Che storia è?

«Mi riferivo all’estate 1918. L’anno prima la sua salute era peggiorata. Zbo lo aveva mandato a Nizza. Nel 1918 Jeanne aveva avuto la figlia e insieme a Modì era scesa sulla Costa Azzurra. Aveva una balia italiana. Quell’estate Modì migliorò e venne a Parigi lasciando Jeanne nel Midì. Lavorò senza pause. Raggiunse il punto più alto della sua carriera. Mi fece molti ritratti. Dopo il lavoro, la sera, andavamo a spasso o alla Closerie des Lilas dove trovava i suoi amici. Ero riuscita a fargli smettere di bere».

Quali erano gli amici di Modì?

«I pittori Kisling, Survage, Foujita, il giapponese. E Utrillo. E Soutine, un selvaggio di genio. Veniva da un ghetto russo. Modigliani gli insegnava le buone maniere, stare a tavola, lavarsi le mani prima di mangiare. E Soutine lo spediva all’inferno. Che duetti! Modigliani era un protagonista nato. Ricordo il giorno in cui, nella casa di Zbo, si lavò dalla testa ai piedi dopo aver finito un quadro, era la sua abitudine, e il recipiente dell’acqua, poggiato sul davanzale della finestra, cadde in strada. Che ridere! La portinaia gridava forsennata. E Modì, per tutta risposta, cominciò a cantare in bilico sul davanzale. Io temevo che precipitasse. Lo pregavo di scendere. Niente. Voleva attendere il ritorno di Zbo. Per convincerlo gli proposi di restare a cena con noi. Cucinavo quando mi chiese di alzare la testa. Tracciò un disegno mirabile su cui scrisse in alto: ‘La Vita è un Dono: dei pochi ai molti: di Coloro che sanno e hanno a Coloro che non sanno e non hanno’».

E Picasso era amico di Modì?

«Picasso, No. Una volta Modì lo prese per la giacca minacciando di spaccargli il muso. Fu quando Picasso lo chiamò ebreo, con disprezzo».

Perché lei non gli fu vicino, quando morì?

«Non stavo bene. Mi ero trasferita nel centro della Francia. Una notte sognai Modigliani. Eravamo su una panchina del Lussemburgo. Mi fece leggere un giornale: ‘Guarda, hanno scritto che sono morto’. In lontananza c’era Jeanne. La chiamai angosciata e il mio grido mi svegliò. Raccontai il sogno all’amica che mi ospitava. Lei mi rassicurò: ‘Modì sta bene, ho avuto sue notizie di recente’. Quando rientrai a Parigi, Zbo disse che Modigliani era a Nizza. Nessuno del nostro gruppo, però, voleva parlarmi di lui. Mi insospettii. Quel sogno mi terrorizzava. Ne parlai con una persona che non sapeva del nostro rapporto. Ed ebbi la tremenda notizia. Modigliani era morto il 24 gennaio 1920. Jeanne suicida il 26 [recte: 25]. Mi sentii spaventosamente sola. Modigliani, caro amico mio. Quanto mi sei mancato!».

* Pubblicata su “Il Tirreno”, 18 marzo 1990


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