Stefano Roffi
Nella macabra sceneggiatura ordita dai genitori, Dalí, appena venuto al mondo, è chiamato a interpretare il ruolo del fratellino Salvador, morto da poco, a lui somigliante “come un’immagine riflessa nello specchio”; una sostituzione nella culla e nella bara che Dalí, affettivamente traumatizzato, percepirà angosciosamente nella sua assurdità di sospensione, dovendo assumere l’identità di vivo e contemporaneamente di morto di un altro, che diventerà il suo spirito guida artistico.
Frequenti i rimproveri dei genitori: “Non uscire senza sciarpa, altrimenti morirai come tuo fratello”. Quel periodo critico che porta i bambini alla scoperta della propria immagine, essenziale a un corretto sviluppo psicologico, si rivela drammatico per Dalí che si identifica sempre più nell’ “ombra in decomposizione” del fratello morto, avvicinandosi al sentimento della putrefazione, dello stato di mollezza e di disfacimento che spesso connoterà le figure dei suoi dipinti (e dei film) in segno di ambiguità e soggettività della percezione umana e mostrando una vera ossessione per i vermi e per gli insetti.
In uno dei suoi libri, “Confesiones Inconfesables”, Dalí accuserà apertamente i genitori di avergli criminosamente e subcoscientemente provocato gravi turbe d’identità chiamandolo con lo stesso nome del fratello morto, divinità minacciosa in quel tempio inviolabile che era la loro camera da letto dove incombeva da una grande foto accostata a una riproduzione del Cristo crocifisso di Velazquez, icona della propria punizione che riapparirà nel Corpus hypercubus del 1954 con Gala, la moglie-madre-tutrice, dolente a contemplarne le sofferenze.
Per contrastare il suo debole “io putrefatto” e conquistarsi attenzione e identità, ricorre all’arma del narcisismo, imponendo una personalità esponenzialmente egotista. Si avvicina ad André Breton che, nel Manifesto del surrealismo (1924), riconosce l’apporto fondamentale degli studi di psicanalisi e, in aperta critica alla razionalità cosciente, dichiara che il metodo freudiano è la strada da seguire per consentire la liberazione delle potenzialità immaginative dell’inconscio e raggiungere, in “automatismo psichico”, uno stato conoscitivo “oltre” la realtà (sur-realtà) in cui veglia e sogno, pur senza nesso logico, sono entrambi presenti e si conciliano in modo armonico e profondo, senza freni inibitori e scopi preordinati, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale.
Dalí definisce “metodo paranoico-critico” il proprio personale “automatismo psichico”, spiegandolo con l’evocazione di immagini prodotte dal torbido agitarsi del suo inconscio (la paranoia) che riescono a prendere forma solo grazie alla razionalizzazione del delirio (momento critico) e conseguentemente trasferendo nelle rappresentazioni pittoriche scansioni della propria personalità in completa rivelazione e trasfigurazione di se. Specchiandosi in un io che ha così riunito tutte le sue peculiarità, riesce a sbocciare a un riconoscimento autodemiurgico appagante, di metapsichica padronanza, conclamata in Metamorphosis of Narcissus (1937), dove una figura ripiegata su se stessa, malinconicamente priva di identità, giganteggia come una roccia sulla superficie specchiante di un lago e si trasforma nel proprio doppio che assume l’aspetto di una grande mano pietrificata nell’atto di reggere un uovo crepato da cui nasce il fiore narciso. Le fasi di trasformazione sono rese in una narrazione consecutiva da sinistra a destra, così anche i colori opachi e le forme, dapprima evanescenti, acquistano gradatamente una connotazione realistica e concreta, come un lento risveglio dopo un terribile incubo amorfo.
Nella nativa Figueras, la prima sala cinematografica viene aperta pochi mesi prima della nascita di Dalí, che così fa parte della generazione di artisti che per primi interagiscono col cinema per tutto il loro percorso artistico. Il film diventerà per lui un mezzo che, benché potenzialmente antagonista rispetto alla pittura, gli avrebbe consentito di sviluppare al massimo le sue intuizioni verbali e visuali, in estensione surrealista della propria immaginazione.
In un articolo pubblicato nel 1927 sulla “Gaceta Literaria” Dalí scrive: “La luce del cinema è una luce allo stesso tempo molto spirituale e molto fisica. Il cinema cattura gli esseri e gli oggetti più straordinari, ancora più invisibili ed eterei delle apparizioni spiritiche. Ogni immagine cinematografica è la cattura di una spiritualità indiscutibile”.
Nei due film scritti con Luis Buñuel, Dalí fa ampio uso delle teorie freudiane sui sogni e l’inconscio, riprendendo alcune delle tematiche già affrontate in pittura. Un chien andalou (1929) si apre col primo piano di una delle prime scene horror della storia del cinema: un uomo taglia con un rasoio l’occhio di una donna (in realtà di un bovino); in alternanza una nube taglia in due la luna. Nelle scene seguenti una donna spinge una mano amputata nella strada con un bastone; un uomo trascina due grandi pianoforti contenenti due asini putrefatti, le tavole dei dieci comandamenti e due preti vivi; la mano di un uomo ha un buco nel palmo da cui fuoriescono formiche; i peli dell’ascella di una donna si attaccano alla faccia di un uomo come un riccio di mare: una lunga serie di associazioni mentali, scene raccapriccianti, atmosfere sature d’angoscia e visioni inspiegabili, capaci di evocare i demoni e le paure dell’inconscio collettivo, tese a provocare un impatto morale sullo spettatore attraverso la loro aggressività.
Il motivo degli animali morti era già presente in molti dipinti di quel periodo e titoli come Oiseau putréfié, L’âne pourri o La vache spectrale testimoniano quanto il tema del disfacimento e della putrefazione, di derivazione fraterna, continuassero a ossessionare l’artista. I due artisti si fecero guidare dal principio di spalancare le porte all’irrazionale, scartando qualsiasi immagine che potesse dar luogo a spiegazioni logiche, culturali o psicologiche. Tagliando l’occhio, la lametta vanifica la percezione ottica tradizionale, invitando ad abbandonare i consueti strumenti intellettivi per attivare un nuovo tipo di sensibilità che prescinde dalla raccolta di elementi reali che l’occhio fornisce all’elaborazione mentale, mentre la luna oscurata libera il meccanismo onirico. È un delirio di assurdità, stranezze, creatività, utilizzate per narrare l’inafferrabilità dell’esistenza e quindi la sua intrinseca meravigliosità, che sedurrà anche il camaleonte David Bowie che con questo film aprirà il suo tour del 1976.
Il secondo film realizzato dal duo Buñuel-Dalí, L’âge d’or del 1930, iconoclasta e irreligioso, esalta l’amour fou di un uomo e una donna contro le istituzioni-baluardo dei valori borghesi, Chiesa, Stato, Esercito, e sostiene che soltanto la forza sovversiva del desiderio e dell’amore è accettabile. Lo fa con invenzioni visive fondate sull’esasperazione, l’indegnità, l’assurdo: vi trionfano le paranoie psicanalitiche tra scheletri di vescovi, giraffe buttate fuori dalla finestra, pini in fiamme e un Cristo che esce dal castello delle 120 giornate di Sodoma. Dalí, non soddisfatto del film, avrebbe voluto “una quantità di arcivescovi, di ossa, di ostensori, tiare luccicanti” per presentare la religione cattolica nei suoi aspetti più sfolgoranti, mentre Buñuel coltivava un anticlericalismo che Dalí trovava elementare, molto distante dalla sua idea di sacrilegio, una forma blasfema di poesia.
Il cinema, che quasi tutte le avanguardie hanno sperimentato considerandolo come una via verso l’opera d’arte totale, per Dalí è quindi un meraviglioso mezzo di espressione del sogno che può permettere il distacco dalla realtà e l’esplorazione dell’immaginario, unendo elementi incoerenti tra loro ma rappresentati in maniera realistica e realizzando così lo stesso straniamento caratteristico dei suoi dipinti.
Il rapporto di Dalí col cinema prosegue e, in un certo senso, raggiunge il culmine all’inizio degli anni quaranta quando, in periodo bellico, decide di recarsi al sicuro negli Stati Uniti e, divenuto un personaggio noto, lega il suo nome a quello di alcune major. Hollywood per un surrealista doveva apparire come il luogo di sublimazione dell’inconscio collettivo e la dimensione più vicina all’ideale surrealista nel suo cercare di soddisfare le pulsioni irrazionali del pubblico. È a questo punto però che Breton, cerbero di ogni velleità commerciale spinta che vedeva in contraddizione con l’arte vera, conia per lui l’anagramma “Avida Dollars”, un anatema verso l’antico compagno, espulso dal movimento surrealista nel 1939 per i suoi eccessi, che gli sembrava ormai troppo sensibile al denaro e al successo, diretto a colpire anche la moglie Gala, sua musa e moglie prima di Paul Éluard, interfaccia, spesso utilitaristico, tra il genio di Dalí e il mondo reale, oltre che custode del suo equilibrio mentale ed emotivo. Gala, dipinta come sensualissima donna di mezza età, ricorre anche in ruoli mitologici e religiosi, quali Leda atomica (1949) e La Madonna di Port Lligat (1950), che mostrano totale sudditanza dell’artista verso di lei (la pone infatti su un piedistallo).
Nel 1941 Dalí sviluppa il soggetto di un dipinto dal titolo Volto della guerra, spaventosa e ostentata immagine di morte derivata dal ricordo della guerra civile spagnola,ideando alcune sequenze di incubo per il film Moontide (Ondata d’amore)di Fritz Lang del 1942, con Jean Gabin e Ida Lupino; le scene inventate dall’artista, immagini di orrore puro in cui Dalí racconta la discesa agli inferi di uno scaricatore di porto che, in preda ad uno stato di ubriachezza, uccide un uomo, non vengono accettate perchè i tecnici rifiutano di produrre gli orribili accessori che avrebbero richiesto.
La collaborazione con Hollywood è però legata principalmente al film di Hitchcock Spellbound (Io ti salverò) del 1945, una delle prime opere cinematografiche in cui l’intreccio psico-amoroso risulta strettamente concatenato a una vera e propria “terapia” psicoanalitica. Al surrealista Dalí fu affidato il compito di realizzare la celebre sequenza del sogno, le cui immagini risultano contigue ma disgiunte dal resto del film rendendo palpabile il senso del sentimento pittorico. Analizzata in accordo con L’interpretazione dei sogni di Freud, la scena contiene le soluzioni agli enigmi del film demandando a uno strumento interpretativo onirico il mistero comportamentale del protagonista Gregory Peck, personaggio senza memoria e possibile omicida che diventa catatonico quando vede linee parallele su uno sfondo bianco. Ingrid Bergman, nelle vesti di una assistente psichiatra innamorata di lui, lo aiuta a scoprire la sua vera identità attraverso gli elementi di un sogno e a sbloccarne un trauma della fanciullezza legato a un incidente sciistico, discolpandolo. In un’atmosfera di inquietante penombra e di instabilità psicofisica si susseguono rocce antropomorfe, ruote “molli”, enormi occhi allucinati, partite a carte surreali. Quando un paio di forbici sovradimensionate taglia un occhio dipinto su una tenda è evidente l’autocitazione della scena scioccante del rasoio che taglia l’occhio della donna in Un chien andalou.
Oltre a numerosi progetti incompiuti, l’interesse di Dalí per il cinema si manifesta anche attraverso curiose contaminazioni surreal-pop delle immagini di alcune star, molto prima che lo facesse Andy Warhol. La sala Mae West del museo Dalí di Figueras prende il nome dalla trasgressiva attrice americana degli anni trenta: il salotto che ne riproduce il volto, in tre dimensioni e a grandezza naturale, è formato dal celebre divano-labbra, da un camino a forma di naso e da due dipinti che rivelano gli occhi della diva, ed è la realizzazione di un collage-progetto ideato dall’artista nel 1934-35 dal titolo Il viso di Mae West utilizzabile come appartamento surrealista. In Shirley Temple, il più giovane mostro sacro del cinema del suo tempo (1939) mostra la sessualizzazione delle star bambine operata da Hollywood, illustrando la testa dell’enfant prodige Shirley Temple, tratta da una rivista, sopra al corpo di una leonessa rossa con seni aggressivi e artigli spianati, intorno giacciono scheletri umani, risultato della sua ultima aggressione; un’etichetta riporta la scritta: “Shirley! finalmente in Technicolor“: consapevolezza dell’inesorabile prevalere del cinema commerciale su quello d’avanguardia.