Per chi lavora all’interno museo è sorprendente la scuola che il bambino possa offrire. Parlando con loro, con i bambini, ci si rende conto dell’inesauribile fonte di apprendimento che, senza esserne consci, custodiscono. Non è un dato matematico, né una legge universale, poiché il singolo soggetto deve poi essere in grado di fare i conti con timori, timidezze e influenze del mondo esterno che possono esserci in un’età come quella dei sei anni e oltre; tuttavia si può affermare che se si è in grado di comunicare con queste fasce di età si viene coinvolti in questa loro innata dote che è quella dell’affabulare.
È un materasso! Un materasso con le ruote.
Silvia, classe terza di una scuola primaria, di fronte all’opera Tête di Mirò del ’76.
Secondo me è un toro. Ma per metà uomo. E lì, in basso, c’è lo scudo con cui
Luca, scuola materna, di fronte alla stessa opera Tête di Mirò del ’76.
sta combattendo.
Perché questo? Perché i bambini, sin dalla più tenera età, ricoprono grazie al gioco i più svariati ruoli, come il regista, il narratore, lo scenografo. Se li si osserva in disparte percepiremo l’impegno impiegato nel decidere ogni singolo dettaglio per rendere il loro gioco perfetto, un gioco autentico, esattamente quello che offre al fanciullo la possibilità di raccontare, creandosi un proprio mondo immaginifico. Ad esempio, l’io vigile ti rende consapevole che una betoniera non è un mostro con la bocca spalancata, ma il gioco autentico che mette in atto il bambino è quello che gli offre la possibilità di poter dire, invece, che quella è proprio una bestia con la bocca aperta, consentendogli di crearsi il proprio universo fantastico.
Se ci si riflette, questo è uno dei tanti dati in comune con gli artisti. Non è un caso quindi che loro siano in grado, molto più degli adulti, di entrare in contatto con le produzioni artistiche. Un artista come Giorgio Morandi, di cui cinquanta opere sono conservate nella collezione permanente della Fondazione Magnani-Rocca, illustre esempio di nature morte, era solito mettere in atto un rigoroso gioco di spostamenti con le sue bottiglie e altri oggetti che dipingeva. Ricordiamoci, però, che i bambini non sono risposta, sono interpretazione, una delle tante possibili. Non sfruttiamoli come metal detector alla ricerca di preziosi responsi, non aggraviamo il peso sulle loro spalle di una responsabilità che non li compete, perché opacizzeremmo il lustro della loro libertà di connotazione.
«L’opera d’arte è per sua natura ambigua», diceva Umberto Eco. Di fatti nel rapporto con l’arte non basta il riconoscimento e la decodificazione, elementi sicuramente fondamentali, ma occorre anche l’interpretazione: il ricevente, nei confronti dell’opera d’arte ha quasi una sorta di obbligo interpretativo. E questa interpretazione dagli adulti è praticata con coscienza, a volte forzata da quell’io vigile sempre in agguato, dal bambino no, soprattuto se condotto “per mano” in un ambiente seducente come quello di un museo. Se si pensa allo spirito del gioco più basico, i bambini sfruttano qualsiasi tipo di oggetto per poter attuare uno scatto simbolico, ovvero una penna può improvvisamente diventare un guerriero possente o un lunghissimo treno. Questo è un dato rilevante se si pensa alla teoria avanzata da Ernst Gombrich, un grande studioso di arte che affermava: «Lo spirito del gioco costituisce il principio generatore di un’opera d’arte che prima di tutto, ancora prima di essere un’opera d’arte è un simbolo, deve essere in grado di sostituire qualcosa.»
Il termine simbolo deriva da Symbolum, in latino “segno, contrassegno” e Symballein, dal verbo greco che significa “mettere insieme”. Con questi dati alla mano è facile vedere come l’arte, allora, sia ricca di giochi di simboli, dalla più antica come potrebbe essere la “Sacra conversazione” di Tiziano, parte della collezione permanente della Fondazione, dove una classe di bambini della scuola materna aveva scorto in Santa Caterina una principessa guerriera, nonostante non avessero riconosciuto da subito la spada con cui viene raffigurata, ma scambiandola per uno scettro “magico”; alla più contemporanea. Proprio quest’ultima, in merito a quanto detto sino ad ora, è forse anche la più ludica, essendosi servita dei materiali più impropri per le sue produzioni. Si veda Burri, con le sue combustioni e i suoi sacchi, di cui anch’essi due esempi sono conservati all’interno della collezione permanente Magnani.
Da settembre, però, all’interno della Fondazione Magnani-Rocca, si è potuto constatare l’abilità dei bambini di fronte ai lavori esposti nella mostra temporanea di Joan Mirò. Sessanta opere di quest’artista catalano dalla personalità così colorata si susseguono in un’ordinata danza tra le sale del museo, mostrando l’evoluzione di Mirò nei confronti della sua produzione e del suo pensiero, pur mantenendo quel fil rouge che collega ogni forma. Joan Mirò era un artista che non amava le connotazioni o le classificazioni; si commetterebbe un errore gravissimo nel ritenerlo un astrattista, ad esempio. Le sue opere iniziali avevano avuto un principio nel mondo particolarista, con qualche nota di surreale in quanto i surrealisti non consideravano la pittura fine a se stessa; ma sin da subito era chiaro il suo stretto legame con la sua terra e, soprattutto, con gli oggetti semplici, di uso comune, quelli che passano inosservati, oggetti di contadini o casalinghe.
«Un forcone, una forchetta ben lavorati da un contadino sono importantissimi per me. Per me ogni oggetto è vivo […]» diceva. Lo impressionava l’immobilità, di una bottiglia, di un bicchiere, di un ciottolo su una spiaggia, perché gli evocava grandi spazi in cui si producevano movimenti infiniti. Questo cos’è, se non un gioco simbolico?
Mirò provava la necessità di raggiungere il massimo dell’intensità con il minimo dei mezzi; proprio questo lo ha indotto a conferire alla sua pittura un carattere sempre più spoglio. Quindi se nel 1935 lo spazio e le forme erano ancora modellati, nel 1940 il modellato e il chiaroscuro iniziarono ad essere eliminati. Secondo la sua percezione la forma modellata è meno sorprendente di una forma piatta, poiché così la profondità non ha limiti. «Rappresentati minuziosamente (i miei personaggi), mancherebbe loro quella vita immaginaria che amplifica tutto.» (Lavoro come un giardiniere, Joan Mirò, 1959). Quella vita immaginaria che amplifica il tutto è la stessa di cui si avvalgono i bambini nelle loro personali creazioni, siano esse artistiche o ludiche. È la stessa che consente loro di poter arrivare di fronte ad un’opera come Peinture (Per a David Fernández Miró) del ’65 riconoscersi e riconoscevi il mondo che li circonda. Riescono a comprendere l’alfabeto di forme con cui si esprimeva Mirò, libero dalle restrizioni dei cliché che spesso definiscono il nostro modo di pensare.
Mirò desiderava che si sentisse il punto di partenza, l’emozione o la visione di un tale oggetto che determinava l’opera. Si pensi che nel disegno infantile si è soliti usare il termine “realismo intelettuale”, ovvero il fenomeno in ragione del quale i bambini, a partire approssimativamente dal quarto anno di vita, non osservano un determinato soggetto-oggetto per disegnarlo fedelmente. Lo guardano prima; nel momento in cui iniziano a disegnare sono interessati non alla visibilità della cosa in sé che rappresentano (ritratto, autoritratto, oggetto), ma dal pensiero che essi costruiscono sulla cosa mentre la disegnano. Così le case diventano trasparenti, con visibili solo i muri laterali che le delimitano, mentre altri dettagli, come potrebbero essere quelli di un ritratto assumono proporzioni non realistiche, ma sono simbolico-metaforici, perché investiti del valore affettivo che il piccolo autore prova, facendo diventare gli occhi o le mani della mamma più grandi rispetto al resto. Sia Mirò che i bambini si avvalgono di simboli per riprodurre un dato reale e quando una classe si ferma di fronte a un quadro come potrebbe essere “Personnages et oiseaux devant le soleil” si ritrovano a comunicare, in un modo spesso accessibile solo a loro.
Da tenere in considerazione che questo atto magico e creativo di comprensione e narrazione il più delle volte si realizza se il bambino è accompagnato in una simile procedura, da una figura che può essere un insegnante, una guida o un operatore didattico museale, o anche un genitore, ma in nessuno dei casi si deve cadere nell’errore comune di pensare di spiegare l’arte. Silvia Spadoni, grande narratrice dell’arte, Docente di Didattica all’Accademia di Belle Arti di Bologna, nonché co-fondatrice del dipartimento educativo del MAMbo, dice che l’arte è come una gonna plissettata: non la si può stirare, non la si può “spiegare”, perché vorrebbe dire togliere quel gioco di luci e ombre e di pieghe, la si depaupera, la si impoverisce di ciò che è.
Autore: Irene Venturini
Laureata in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, frequenta attualmente il secondo anno del biennio di Didattica dell’arte e mediazione culturale del patrimonio artistico. Amante di arte, letteratura e dell’approccio “imparare ad imparare”. Tra i vari progetti all’attivo vi è quello di pubblicare un romanzo.
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