Sono bacchette di legno di balsa, fogli di cartoncino dipinti su entrambi i lati, fili di acciaio elastico e vetro soffiato.
Le macchine inutili già dal loro nome esprimono un paradosso, un ossimoro, che mette insieme due elementi: la Macchina che per definizione deve servire a qualcosa, e l’Arte che invece non deve avere per forza una funzione pratica.
Negli anni ‘30 Munari muove i primi passi come artista facendosi conoscere nel gruppo del cosiddetto Secondo Futurismo. Del Futurismo a Munari piace soprattutto l’esaltazione del movimento e vuole provare a portarla fuori dalla bidimensionalità della tela. Inoltre in quel periodo Munari legge molta fantascienza e ne è fortemente ispirato. Comincia così a costruire degli oggetti che fluttuano appesi al soffitto in dialogo con lo spazio e l’ambiente circostante.
Queste opere d’arte, muovendosi, sfruttano una dimensione nuova: il tempo. Nascono così le Macchine Inutili.
«Fatto è che questi bastoncini, come animati da un incantesimo, si mettono a vivere da soli, lentamente ruotano, vibrano, si inclinano, si schiudono a raggiera come code di pavone, tremolano come foglie. Basta che uno si schiarisca la voce nell’angolo opposto della stanza, basta il calore di una lampadina accesa, basta il quasi impercettibile filo d’aria penetrato da un interstizio della finestra e loro si mettono in agitazione. In pratica, siccome la quiete assoluta dell’atmosfera non si realizza mai neanche nei locali chiusi, essi sono in perpetuo movimento». Dino Buzzati racconta le Macchine Inutili di Munari
Nella mostra “Bruno Munari. Tutto” alla Villa dei Capolavori, tra le oltre 250 opere che raccolgono 70 anni di invenzioni geniali di Munari, ci sono anche diverse Macchine Inutili tra le quali spicca una delle primissime mai realizzate e datata 1933.