Una scheda di Vittorio Sgarbi dedicata al capolavoro di Albrecht Dürer conservato nella collezione permanente della Fondazione Magnani Rocca.
Si tratta della più celebre incisione di Dürer, in stretto rapporto con il San Gerolamo nello studio dello stesso anno. Mentre il santo medita nella serenità del suo studio, la figura alata della Melencolia sta seduta, nella stessa posizione di rassegnazione del Giobbe dell’altare Jabach, su un gradino di pietra, mentre, intorno a lei, vediamo strumenti di falegnameria che sembrano non accordarsi con l’idea del Panofsky di un edificio non terminato.
Ma giustamente lo studioso ha osservato: “Mentre il santo è circondato dal calore del suo studio illuminato, la Melencolia è collocata in un luogo freddo e solitario, non lontano dal mare, debolmente illuminato dalla luce della luna, come si può dedurre dall’ombra della clessidra sul muro, e dal bagliore spettrale di una cometa circondata da un arcobaleno lunare. Mentre egli divide la sua cella con i suoi animali soddisfatti e ben pasciuti, essa è accompagnata da un putto imbronciato che, appollaiato su una macina fuori uso, scarabocchia qualcosa su una tegola, e da un bracco denutrito e tremante. E mentre egli è serenamente assorbito nel suo lavoro teologico, essa è caduta in uno stato di tetra ina-zione.
Incurante del suo abbigliamento, con i capelli scomposti, appoggia la testa sulla mano e con l’altra tiene meccanicamente un compasso, mentre l’avambraccio riposa su un libro chiuso. I suoi occhi sono fissi in uno sguardo accigliato. Lo stato d’animo di questo genio infelice è riflesso dagli accessori il cui sconcertante disordine fornisce ancora una volta un eloquente contrasto con la nitida ed efficiente sistemazione delle proprietà di San Gerolamo. Appese all’edificio incompiuto stanno una bilancia, una clessidra e una campana sotto la quale è incastrato nel muro un cosiddetto quadrato magico; appoggiata lungo una parete sta una scala di legno che sembra sottolineare l’incompletezza dell’edificio. Il suolo è cosparso di arnesi e oggetti, relativi soprattutto alle arti dell’architettura e della falegnameria. Oltre alla già ricordata macina, troviamo: una pialla, una sega, un righello, un paio di tenaglie, alcuni chiodi incurvati, uno stampo, un martello, un piccolo crogiuolo (forse per fondere il piombo) con un paio di molle per prendete i carboni ardenti, un calamaio con un portapenne, e, seminascosto sotto la sottana della Melencolia, uno strumento che può essere identificato – sulla base di una xilografia di Hans Dóring – come il soffietto di un mantice. Due oggetti non sembrano tanto attrezzi quanto simboli o emblemi dei principi scientifici che stanno alla base delle arti dell’architettura e della falegnameria: una sfera tornita e un romboide tronco di pietra. Come la clessidra, la bilancia, il quadrato magico e il compasso, questi simboli o emblemi attestano che l’artefice terrestre, come l’Architetto dell’universo’, si serve nel suo lavoro delle regole della matematica, cioè, nel linguaggio di Platone e del Libro della Saggezza, di ‘misura, numero e peso’.”
Il Panofsky spiega che il titolo Melencolia I s’intende con riferimento alla teoria dei quattro umori, sviluppata in età classica, secondo la quale il corpo umano è condizionato da quattro fluidi, corrispondenti ai quattro elementi, ai quattro venti, alle quattro stagioni, alle quattro parti del giorno e alle quattro fasi dell’esistenza Fra questi quattro fluidi l’umore malinconico – dal greco “bile nera” – corrisponde alla terra, a Borea, all’autunno, alla sera e all’età matura. In ogni uomo prevale uno dei quattro umori. Quando la malinconia cresce oltre una normale misura, l’uomo può soffrire di una particolare infelicità, giungendo fino alla pazzia. Così in antichità il temperamento melanconico è consi derato il peggiore, in contrapposizione al temperamento sanguigno, più vicino all’equilibrio i alla condizione originaria. In età moderna, con l’Umanesimo, questi valori si modificano e la malinconia diventa la caratteristica di coloro che si distinguono nella filosofia, nella poesia e nelle arti, come già aveva osservato Aristotele. Niente di più logico, quindi, da parte dei neo-platonici fiorentini, che legare questo obiettivo riconoscimento alla teoria platonica del furore divino. “Così l’espressione furor melancholicus divenne sinonimo di furor divinus. Quella che era stata una calamità, e nella sua forma più attenuata, uno svantaggio, divenne un privilegio ancora pericoloso ma tanto più esaltato: il privilegio del genio”. Alla moderna esaltazione del temperamento malinconico corrisponde quella del pianeta Saturno, associato alla malinconia. Le tradizionali raffigurazioni della malinconia come un avaro vecchio e triste o come una donna addormentata si trasformano radicalmente: “per quanto primitive esse fornirono la formula compositiva di fondo e anche l’idea generale di cupa inerzia […] inutile dire, tuttavia, che le differenze di gran lunga superano le analogie: nelle miniature e xilografie quattrocentesche la figura secondaria è altrettanto indolente e addormentata della principale, mentre l’incisione di Dürer manifesta un deliberato contrasto tra l’inazione della Melanconia e gli strenui sforzi del putto che scarabocchia; cosa più importante, la Melanconia sta in ozio e le donne nelle illustrazioni precedenti hanno abbandonato le loro conocchie per ragioni del tutto opposte. Queste umili creature si sono addormentate per pura pigrizia, mentre la Melanconia, al contrario è, si potrebbe dire, ultradesta; il suo sguardo fisso è di intenta, pure se infruttuosa, ricerca. Non è inattiva perché è troppo pigra per lavorare, ma perché il lavoro ha perduto ogni significato ai suoi occhi la sua energia non è paralizzata dal sonno, ma dal pensiero. Nell’incisione di Dürer l’intera concezione della Melanconia è spostata su un piano del tutto al di fuori della portata dei suoi predecessori. Invece della donna indolente abbiamo un essere superiore — superiore non solo per via delle ali, ma anche in virtù della sua intelligenza e immaginazione — circondata dagli arnesi e simboli dello sforzo creativo e della ricerca scientifica”. Si aggiunga che, all’immagine della Malinconia, per il Panofsky, Dürer associa anche quella della Geometria, ottenendo, “da una parte una intellettualizzazione della Malinconia e, dall’altra, l’umanizzazione della Geometria”. Con questo riferimento si spiegano meglio anche gli arnesi di lavoro e i simboli disposti in un disordine che comunica inquietudine e malessere, come lo stesso strumento fra le mani della donna, un compasso, tipico attributo della Geometria, inutilizzato. A ognuno degli oggetti va naturalmente attribuito un significato, non solo letterale, per il quale si rimanda al Panofsky. L’inazione della Malinconia si può spiegare con l’insufficienza delle idee e delle teorie sull’ordine delle cose, o anche nel modo proposto da Panofsky: “Alata, ma accovacciata al suolo, incoronata ma offuscata da ombre, munita degli arnesi dell’arte e della scienza, ma chiusa in un’oziosa meditazione, dà l’impressione di un essere creativo ridotto alla disperazione dalla consapevolezza di barriere insormontabili che la separano da un più alto dominio del pensiero. Fu forse al fine di accentuare questa idea di un primo, o inferiore, grado di avanzamento che Dürer aggiunse il numero I all’iscrizione?”. Alla lettura del Panofsky si contrappone quella del Calvesi, in chiave alchemica, che identifica nella figura della Melanconia la “melanosi” o nigredo, innerimento alchimistico e primo momento dell’opus alchemico. Si spiega così l’atteggiamento pensoso della figura con la testa appoggiata al pugno: infatti la testa carica di pensieri e di nigredo è letteralmente “innerita”. “Se nella parte sinistra dell’incisione il processo di trasmutazione dalla massa confusa e dalla nigredo verso la promessa dell’arcobaleno è simboleggiato nei suoi elementi fisici, nella parte destra, occupata dall’ ‘athanor’, il processo stesso si svolge sì nel chiuso del forno [l’edificio a destra] ove è nascosto il vaso, ma simultaneamente e per somiglianza nella testa umana, cioè nel travagliato cerebro della figura malinconica. Questa, con il compasso, aspira a riportare la massa confusa alla forma, cioè all’idea (forma o idea che è latente nella materia e che al momento è come in eclisse, così come la luce del sole). Essa cerca, cioè, di svolgere in termini puramente platonici, ‘ideali’, cioè geometrici (quadratura del circolo) l’opus che in termini ‘chimici’ ha luogo nerathanor’ e in termini ‘fisici’ è visualizzato nella successione prosperdca di sinistra”.
I numeri del quadrato magico che, assommati in ogni fila, danno sempre come risultato 34 (per alcuni, allusivi alla data della morte della madre —16 maggio 1514), per il Calvesi si riferiscono alle sette fasi dell’opus alchemico, 34 = 3 4- 4 = 7. La clessidra, la bilancia e la campana sono strumenti di misurazione delle fasi dell’opus che avvengono nella fornace alchemica o “athanor”. Alla fornace corrisponde, nella parte sinistra, la sfera, che è pietra filosofica e contiene i quattro elementi. La sua circolarità, come quella della macina su cui sta seduto il putto alato (Mercurio bambino che presiede all’opus alchemico) è simbolo di unità, di Dio, al quale l’uomo tende con il processo alchemico. Nella circolarità coincidono il punto di arrivo e il punto di partenza, il prima e il dopo, il sopra e il sotto. Il parallelepipedo di pietra, per il Calvesi, va collegato alla sfera: due angoli spezzati rappresentano il momento della “separatio”, all’inizio dei processo alchemico. Alla terza fase dello stesso processo, quella della “viriditas”, corrisponde il serto che corona la Melencolia. Per il Panofsky esso è invece una protezione contro i pericoli dello “humor melancolicus”: “per reagire ai cattivi effetti dell”asciuttezza’ si raccomandava di porsi in testa ‘le foglie di piante aventi una natura umida’, e proprio di queste piante è intessuto il serto, composto di ranuncoli d’acqua e crescione”. Riguardo al pipistrello e al cane il Panofsky osserva che erano tradizionalmente associati alla malinconia, “il primo (‘vespirtilio’ in latino) perché emerge all’imbrunire e vive in luoghi solitari, oscuri e in rovina; il secondo, perché, più che altri animali, è soggetto a momenti di abbattimento e anche alla pazzia, e perché sembra tanto più desolato quanto più è intelligente Ci cani più sagaci sono quelli che hanno una faccia melanconica’, per citare un autore del primo Cinquecento che pensava, evidentemente, a quelli che noi chiamiamo segugi)”. Della testa appoggiata alla mano il Panofsky osserva che “come espressione di pensiero rimuginato, di fatica o di dolore, questo atteggiamento si ritrova in migliaia di figure ed era divenuto un attributo fisso della Melanconia e ‘Acedia’; e anche il fatto che la mano è chiusa a pugno non è così insolito come potrebbe sembrare. Il ‘pugillum clausum’ era un simbolo tipico dell’Avarizia — Dante dice che gli avari risorgeranno ‘col pugno chiuso’ — e si riteneva che se questo vizio melanconico assumeva le proporzioni di vera follia, i pazienti non avrebbero mai dischiuso le dita perché immaginavano di tenere nel pugno un tesoro o addirittura il mondo intero.
Ma nell’incisione di Dürer il motivo ha un significato completamente diverso […] Dürer, facendo sostenere la testa, centro del pensiero e dell’immaginazione, per mezzo del pugno, trasforma un sintomo caratteriologico e persino medico in un gesto espressivo. La sua Melanconia non rappresenta né l’avarizia né l’insania mentale, ma un essere pensante in uno stato di perplessità. Non è fissa su un oggetto che non esiste, ma su un problema che non può essere risolto”. L’interesse e la bontà delle osservazioni di carattere iconologico o di natura alchemica fin qui ricordate, nella loro sovrabbondante densità, non impediscono di vedere espressa in questa memorabile allegoria, nel modo più naturale, una condizione moderna d’inquietudine e di malessere, ma insieme anche di umanistica certezza che la fecero avvicinare in epoca romantica (Carus) al mito di Faust. Essa preserva, infatti, quei motivi di suggestione che accesero la fantasia del Vasari e stimolarono richiami e citazioni in artisti come Guercino, Domenico Fetti, Benedetto Castiglione, Nicolas Chaperon, fino a Kaspar David Friedrich e, in tempi recenti, a Renato Guttuso. La stessa condizione anfibia della Malinconia, metà donna metà angelo, allude alla condizione dell’uomo, la cui anima, chiusa nel corpo, aspira a ritornare alla sua originaria destinazione celeste. L’arte è in grado di cogliere la divinità dell’uomo, proprio sotto questa contraddizione. E così, nella nostra immaginazione la Melencolia di Dürer non è la rappresentazione di una sconfitta, ma di una esaltante e contrastata elevazione spirituale. A essa corrisponde pienamente l’assoluta e quasi sovrumana invenzione, di sempre sorprendente attualità e di inarrivabile qualità esecutiva, della “strepitosa carta, dove con bella invenzione (Durero) figurò la Malinconia, con tutti gli strumenti, che riducono chiunque l’adopera ad esser malinconico; carta sì bene perfezionata, che non è possibile al bulino d’intagliare più sottilmente”, come scriveva il Gori Gandellini, parafrasando il Vasari.