Luigi Magnani e Giacomo Balla. Case come autoritratti
di Stefano Roffi
La casa di Luigi Magnani è una delle rarissime meraviglie che siano apparse nella triste Italia senza bellezza degli ultimi decenni, forse l’ultima possibile; è concresciuta alla vita del suo abitatore, intrecciata a lui in modo inestricabile, sì che soltanto attraverso i suoi quadri e i suoi oggetti – i mobili Impero, al tempo quasi spregiati, ma anche le ceramiche, le pagine miniate, le incisioni, gli argenti, i tappeti – il grande collezionista, che ha saputo percepire con magistrale acutezza il rifrangersi dei gusti e degli echi nella letteratura, nella musica e nell’arte, è riuscito a raccontare se stesso. E mentre attraversiamo, stanza dopo stanza, la sua “casa della vita”, diventiamo partecipi del suo progetto; alla fine ci accorgiamo di trovarci in un museo vivo, non un mausoleo, non un assembramento esanime di oggetti, ma come in una foresta incantata saviniana, che un artificio creativo separa dalla vita immediata sublimandola senza renderla prigione mortifera, per catturare la vita segreta delle immagini riflesse, i volti dei celebri personaggi della cultura e dell’aristocrazia europea del Novecento, di casa a Mamiano, che sembrano riaffiorare dal torbido delle antiche specchiere sopra i camini della villa.
Negli anni recenti, numerose sono state le mostre dedicate ai più noti artisti italiani del XX secolo, organizzate dalla Fondazione Magnani Rocca nella casa appartenuta al Fondatore.
Artisti non di rado frequentati da Magnani – come Renato Guttuso, Filippo de Pisis, Giacomo Manzù, Alberto Burri – e voluti per la collezione che andava formando.
Nello scegliere gli artisti contemporanei, Magnani dimostrò un intuito risoluto, che non lo fece dubitare di fronte alle più azzardate novità espressive, anzi lo stimolò a trovare la continuità della personale storia dell’arte che stava scrivendo alle pareti dei saloni della sua Villa, anche in un’epoca che, rispetto al passato, pareva aver rotto molti vincoli di linguaggio e di contenuto. Per entrare nella Villa dei Capolavori, le opere dovevano corrispondere alla sua idea dell’arte, e della qualità nell’arte; un’idea aristocratica e personalissima, che non variava tra pittura, musica e letteratura, gli interessi culturali che Magnani coltivava alla ricerca di correspondances baudelairiane. A pochi ospiti era consentito ammirare le meraviglie che andava raccogliendo; fra questi i più noti studiosi d’arte della seconda metà del Novecento, che spesso gli facevano visita contribuendo con suggerimenti e confidenze all’arricchimento della collezione: fra questi, Arcangeli, Argan, Berenson, Brandi, Briganti, Haskell, Longhi, Pope-Hennessy, Sgarbi, Tassi, Zeri.
Si è realizzato così un museo dell’anima in cui quadri dei grandi maestri del passato, degni dei più importanti musei del mondo, accanto ad antichi e rari arredi, raccontano di sé e della vita di chi li ha raccolti e custoditi, in dialettica formale con alcune delle opere simbolo dell’età contemporanea.
Quasi in segno di riconoscenza per la docile sottomissione degli oggetti collezionati nell’arco della sua esistenza, Magnani nel 1978 costituisce la Fondazione, definitivamente aperta al pubblico nel 1990: con sensibilità ed erudizione, ha voluto far in modo di condurci quasi personalmente attraverso la sua incredibile dimora, arredata con pezzi del primo Ottocento degni di una residenza napoleonica, in cui ogni elemento ha una storia da raccontare, un ricordo da rievocare. Scatta, così, quel processo di identificazione uomo-oggetto che è insito nella logica del collezionista che ama possedere per contemplare, per costruire un destino comune fra se stesso e le cose, una simbiosi ricercata e raggiunta.
Per il collezionista, infatti, l’uomo lascia traccia di sé nelle cose, siano esse capolavori illustri o prodotti anonimi di un’epoca; privato di tale sfera di oggetti, egli non sopravvive, perde il suo potenziale di eternità.
D’altra parte l’identificazione uomo-oggetto non opera in un senso solo, perché l’oggetto non ha un ruolo passivo; citando Praz, il collezionista “a forza di pratica riesce a guardare un negozio d’antichità dall’altra parte della strada e notare i pezzi autentici che lo chiamano ad alta voce tra mezzo il ciarpame e le imitazioni […]. Spesso ho sentito che se quei mobili potessero parlare, uno potrebbe udirli riversare la loro gratitudine nelle vostre orecchie. La libreria spalancherebbe i suoi sportelli nell’impazienza di ricevere i degni volumi sugli scaffali, la poltrona vi stringerebbe nel suo abbraccio, la scrivania si stenderebbe per offrire fresca ispirazione alla vostra penna. I mobili si sentono meglio fisicamente, e stavo quasi per dire spiritualmente, quando sono collocati nel proprio ambiente” (M. Praz, capitolo “Vecchi collezionisti” in Gusto neoclassico, Firenze, 1940). Questa sorta di feticismo dell’anima trasforma la casa in una creatura vivente, che docilmente si lascia plasmare dal suo creatore, e che come un ecosistema si riassetta secondo un equilibrio, un ordine interno. La casa della vita diventa, perciò, un percorso ipertestuale: attraverso gli oggetti si gettano ponti su altri mondi, reali o interiori, su altre epoche, vicine o remote. Essa è fonte di godimento, luogo di realizzazione di un progetto esistenziale, proiezione dell’io. L’ambiente diviene un museo dello spirito, un archivio delle sue esperienze, esso vi rilegge la propria storia, è la sua cassa armonica dove, e lì soltanto, le sue corde rendono la loro autentica vibrazione.
Come in un paesaggio si riflette lo stato d’animo del romantico meteoropatico, così la casa diventa, con Magnani, specchio della personalità del collezionista che con cura progettuale l’arreda e la vive. Ancora Praz: “Ho detto altrove che la casa è una proiezione dell’Io, convenendo con Robert de Montesquiou che l’appartamento è uno stato d’animo, e parafrasando un passo di Byron: ‘Non sono i monti, le onde e i cieli, parti di me e della mia anima, come io di essi?’. Ma fino a che punto sono io il protagonista, e fino a che punto, per controverso, sono io il succube delle cose, l’apprenti sorcier che non sa controllare l’ambiente? […] In un caso e nell’altro, si può pensare, avviene una tale fusione tra l’individuo e l’ambiente, che l’uno non può fare a meno dell’altro, e la distruzione o la metamorfosi dell’ambiente dovrebbe portare al crollo dell’individuo”.
Il riallestimento precedente all’apertura al pubblico del 1990, dopo la morte di Magnani avvenuta nel 1984, aveva effettivamente portato a una metamorfosi dei caratterizzatissimi ambienti della Villa di Mamiano prossima alla loro distruzione: il gusto dialettico di Magnani risultava marginalizzato e appiattito, per far posto ad ambienti minimali e passati in candeggina, con le opere del Novecento allestite come panni appesi su ingombranti ferraglie in sale svuotate e disanimate, molti arredi originari della Villa accantonati, sparita la deliziosa congerie che caratterizzava l’esprit compositivo di Magnani, con le cromie accese, il senso tattile, il dialogo evocativo a fare da padroni al tempo del collezionista. Con Magnani, le sale portavano il nome della tinta che le caratterizzava, alcune porte erano rosse, i tendaggi erano sontuosi e coloratissimi, un Pantheon dell’arte ma quasi un caleidoscopio, come una delle più celebri case d’artista, quella di Giacomo Balla. Nel tempo si è cercato di ripristinare, per quanto possibile, la presenza del gusto del Fondatore nella sua casa.
Così Magnani spiegava il proprio approccio con le opere d’arte: “Il rapporto che amo con l’opera d’arte è quello che si riferisce esclusivamente alla forma. Un quadro pieno di contenuti, anche belle storie, non mi interessa affatto. Mi preme solo ciò che riguarda l’aspetto formale, se no resto indifferente”.
La ricerca formale lo portò a collezionare Cézanne, in particolare gli acquerelli, così cerebrali; in essi l’artista ricrea il consistere delle cose, la struttura della forma, il senso plastico insito nella natura: una ricognizione dell’essenza che porta a una ricostruzione pittorica vera oltre quello che appare all’occhio, sub sustanziale, con un ruolo determinante nel recupero dei valori di massa e forma, superando l’aneddotica retinica impressionista. L’artista voleva così che l’immagine della natura, di per sé fugace, potesse essere percepita “come eterna”, con un modo di comporre basato sulla frammentazione del tocco, derivante in origine dallo studio delle ombre colorate di Veronese, e su un distacco via-via sempre maggiore dal dato oggettivo, con una accresciuta possibilità di combinazioni e con una superficie pittorica dominata da una modulazione estremamente articolata del colore, che gli consentì di intravedere l’esistenza di una nuova struttura spaziale, nella quale le cose si aprono, senza limiti, le une alle altre: si “compenetrano”. Un procedimento che, pur senza derivare direttamente da Cézanne, viene portato all’estremo da Balla, che qui, già attorno al 1912, trova tutta la sua modernità futurista, strutturando le sue “Compenetrazioni iridescenti” con innesti di forme circolari e triangolari e dipingendole con colori puri ad acquerello; forse esplorazioni di principi teosofici, certo analisi dell’oggetto/forma cercando di rappresentarne l’essenza e, quindi, andando già oltre il Futurismo stesso – soprattutto quello di Boccioni, giocato tutto sull’immagine e sulla simultaneità della visione – verso una astrazione geometrica, da volumetrica che era in Cézanne.
Balla si preoccupa della vita che circola nelle forme della materia, studia le forze celate nello spazio quotidiano e nell’universo, ne elabora la sensazione visiva e la sensazione dello stato d’animo ad essa correlata: la prima crea la seconda, rigenerandola. Indaga in tutte le direzioni, senza puntare programmaticamente all’astrazione; parte da una percezione del mondo esterno nei termini della sensazione, passando poi allo stato d’animo che essa produce. Di fatto lavora sulla percezione visiva e svolge una ricerca per esprimere come le forme creino uno stato d’animo e come quest’ultimo possa essere a sua volta tradotto in colori e forme.
L’interesse collezionistico di Luigi Magnani, pur senza includere Balla, non escluse il Futurismo – apparentemente inconciliabile con la sua pacatezza saturnina – con l’acquisto dell’iconica Danseuse di Gino Severini, così ricca di movimento, quasi frenetico, e di senso sfuggente del tempo, ma insieme così composta, quasi una Madonna fra oranti, emblematica della vicenda della modernità, fatidicamente realizzata nel 1915 – come la rara incisione futurista di Giorgio Morandi sempre in collezione Magnani – l’anno in cui Balla, che di Severini fu maestro, firmò insieme a Fortunato Depero il Manifesto della Ricostruzione futurista dell’Universo, citandovi le programmatiche parole di Marinetti sull’arte: “L’arte, prima di noi, fu ricordo, rievocazione angosciosa di un Oggetto perduto (felicità, amore, paesaggio) perciò nostalgia, statica, dolore, lontananza.
Col Futurismo invece, l’arte diventa arte-azione, cioè volontà, ottimismo, aggressione, possesso, penetrazione, gioia, realtà brutale nell’arte (Es.: onomatopee. – Es.: intonarumori = motori), splendore geometrico delle forze, proiezione in avanti. Dunque l’arte diventa Presenza, nuovo Oggetto, nuova realtà creata cogli elementi astratti dell’universo. Le mani dell’artista passatista soffrivano per l’Oggetto perduto; le nostre mani spasimavano per un nuovo Oggetto da creare. Ecco perché il nuovo oggetto (complesso plastico) appare miracolosamente fra le vostre”.
Il Manifesto del 1915 rappresenta una delle tappe più significative nell’evoluzione dell’estetica futurista; qui trova una completa maturazione la volontà del Futurismo di ridefinire ogni campo artistico secondo le proprie teorie, occupandosi delle forme del mondo esterno fino a coinvolgere anche gli oggetti e gli ambienti della vita quotidiana. Gli ambiti della ricerca paiono illimitati: arredo, oggettistica, scenografia, editoria, grafica pubblicitaria: nulla sembra essere estraneo alla sensibilità dei due artisti firmatari. Anche nel campo della moda e dell’abbigliamento, i futuristi imposero il loro segno distintivo, a partire dalle celebri “serate”, durante le quali gli artisti–autori-declamatori indossavano abiti da loro stessi disegnati e maschere che suggerivano la robotizzazione e meccanizzazione dell’uomo, per arrivare alla vera e propria rivoluzione dell’abbigliamento proposta nella teoria e nella pratica da Balla.
A cento anni dalla pubblicazione del Manifesto, i saloni della Villa dei Capolavori, accanto alle opere celeberrime di Tiziano, Van Dyck, Goya, Monet e tanti altri, ospitano oltre settanta lavori di Balla. Allestiti in sequenza tematica, come tematica è la presentazione in catalogo, essi provengono da raccolte pubbliche e private – oltre alla collaborazione fondamentale degli eredi dell’artista, di grande importanza sono i prestiti della Corte Costituzionale e della Banca d’Italia, della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, del Museo del Novecento di Milano, della Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale, della Fondazione Cariverona, dell’Istituto Svizzero – e documentano l’intero percorso artistico di Balla, dall’inizio del XX secolo, con le opere divisioniste, agli anni trenta e quaranta, col ritorno, in chiave modernissima, della figura.
Nove le sezioni, partendo proprio dai punti di sviluppo del Manifesto del 1915, efficacemente chiamati dagli autori: Astratto, Dinamico, Trasparentissimo, Coloratissimo e Luminosissimo, Autonomo, Trasformabile, Drammatico, Volatile, Scoppiante.
Balla viveva a Roma nel periodo – fra gli anni trenta e i cinquanta – in cui Magnani abitava nella capitale, insegnava all’Università La Sapienza e acquistava opere di diversi artisti italiani del suo tempo; la fama del genio futurista era ancora piuttosto limitata, i grandi musei e i grandi collezionisti lo stavano ancora scoprendo. Una caratteristica univa Balla e Magnani e nel contempo rendeva improbabile il loro incontro collezionistico: entrambi perseguivano un progetto personale, ogni opera di Balla era un passaggio di un grande racconto in divenire, di una costruzione demiurgica, la tessera di un mosaico di estrema complessità e di mutevole progettualità che difficilmente si sarebbe adattata a un altro progetto, quello che Magnani si proponeva di realizzare a Mamiano.
Balla, sempre innovativo, anticipatore e geniale, voleva dunque ricostruire l’universo, più colorato, più sorprendente, allergico al passatismo, intriso di futuro. Per prima cosa intervenne sulla propria abitazione a Roma – in via Nicolò Porpora poi, dal 1929, in via Oslavia – facendone un laboratorio di sperimentazione futurista. Era, quello, il suo mondo, il suo personale universo, con la moglie Elisa Marcucci e le figlie Luce ed Elica, nei placidi e monotoni quartieri romani che non offrivano particolari occasioni di esprimere la sua creatività. Fu così che l’appartamento divenne il campo d’azione del suo lavoro d’artista; ogni minimo spazio venne invaso dall’impeto ricostruttivo del Futurismo, un bozzolo decoratissimo e coloratissimo dove si andava compiendo una delle più sorprendenti ricerche d’avanguardia del XX secolo; mentre in Germania si ideavano sistemi abitativi all’insegna della funzionalità e della sottrazione, in una palazzina romana esplodeva la furia giocosamente creativa di uno stregone che contaminava col proprio genio ogni elemento dell’abitare e del vestire, dalle piastrelle del bagno ai paraventi ai fiori futuristi alle cravatte, un fuoco d’artificio infinito che si sovrapponeva ai tanti dipinti che lo scarso interesse del mercato gli faceva conservare nelle stanze di casa, rendendolo collezionista di se stesso.
Casa quindi come opera d’arte totale, uno scenario teatrale, con tanto di regolare apertura al pubblico, come testimonia l’annuncio che apparve varie volte tra il 1919 e il 1920 sul giornale “Roma futurista”: «Visitate la casa futurista di Balla. Ogni domenica dalle 15 alle 19». Racconta Francesco Cangiullo che Balla, nella sua casa “tutta iridescente e scintillante di colori”, si presentava vestito con calzoni a quadretti, scarpe di vernice e gilet multicolori. Nella camera da pranzo vi erano “piatti gialli, verdi e rossi, tazze viola e lilla, le mensole smaglianti di smalti multicolori. Carte variopinte e sgargianti che si riflettevano in lamine di stagnole, occhi di celluloide che lucevano tremolanti in un quadro, lampade fantastiche di carta velina gialla e verde, accese dal sole, studi futuristi di velocità astratte e lacche vermiglie … e Balla che vivificava vertiginosamente il suo ambiente pirotecnico, cantando ballando e suonando …”.
Trasferitosi in via Oslavia, Balla, aiutato dalle figlie devotamente operose, si impegna ancor più nella decorazione della sua casa-studio, rendendo ogni elemento dell’appartamento testimonianza della sua personalità.
Il colore è l’elemento caratterizzante, con la sua capacità di esaltare il dinamismo e il movimento delle linee delle pitture murali che decorano alcuni ambienti, come lo “studiolo rosso” e il lungo corridoio. La pittura corre infinita, un fiume in piena, e invade i muri, i mobili e gli accessori di tutta la casa, perfino i vestiti e le stampelle dentro gli armadi. Sulle pareti l’anonima carta da parati preesistente viene ricoperta dalla decorazione, così come gli impianti a vista, i fili elettrici e le tubature dell’acqua, celati da una pannellatura modulare in cui si rincorrono i suoi motivi in concatenazione narrativa.
Il proclama futurista di annientare i musei, identificati come cimiteri dell’arte, come sottrazione dell’energia creativa al vivere quotidiano, trova un bilanciamento propositivo nella volontà di trasferire la creatività negli ambienti di casa, negli abiti, in ogni espressione concreta e immediata dell’esistere. Balla e anche Depero, con la sua “Casa del Mago”, crearono così case-museo come fossero autoritratti dinamici, racconti di energia vitale; mentre la casa di Magnani, ispirata da un disegno sublime quanto riservato, è abitata dallo spirito, quello della bellezza, e mostra purezza, perfetta forma, mancanza di agitazione e di materia.
Nella casa di via Oslavia è conservata un’opera che impegnò Balla nel corso degli anni venti e che dimostra il grande interesse dell’artista per gli aspetti della comunicazione, dei suoi effetti su un grande pubblico. Inizialmente intitolata Apoteosi del fascismo, era prevista come un polittico a diversi pannelli, congiunti con una dinamica a spinta piramidale, che doveva raggiungere i ventotto metri d’altezza, con un impatto paragonabile a quello dei grandi teloni stampati che oggi celano i cantieri di restauro dei palazzi storici. Non avallata dal regime, dell’opera fu realizzato soltanto il vertice, esposto nel 1927 col titolo Le mani del popolo italiano. L’immagine comporta in alto una stella radiante, dipinta a toni pastello, e in basso due mani aperte a coppa, trattate con colori netti e vivi, rosso e verde cioè i due colori complementari della bandiera italiana, che rispondono al blu profondo su cui campeggia la stella, simbolo nazionale italiano. Le forme sono espressive e schematiche, trattate con l’immediata semplicità della grafica pubblicitaria.
Pur aderendo inizialmente al secondo futurismo marinettiano – firma anche il Manifesto dell’aeropittura nel 1929 e realizza col grande dipinto Balbo e transvolatori italiani (Celeste metallico aeroplano), del 1931, la sua prima opera aeropittorica e l’ultima futurista, ancora una piramide ascensionale, in questo caso di aerei, trafitta di colori metallici a intrecciarsi con gli strati d’atmosfera – a partire dai primi anni trenta, isolandosi e ritirandosi in una solitaria meditazione, senza rinnegare le sue innovazioni artistiche del precedente ventennio, Balla si allontana gradualmente dai futuristi per riavvicinarsi alla pittura figurativa “nella convinzione che l’arte pura è nell’assoluto realismo senza il quale si cade in forme decorative e ornamentali”, come scrive al giornale “Perseo”. La sua pittura si evolve allora in una forma di realismo di derivazione fotografica, già sperimentato negli anni divisionisti e di Dubbio (1907-1908), un’opera che pare una profezia della televisione, con la moglie Elisa ammiccante quasi fosse una conduttrice in cerca di audience, in una cornice sagomata dell’artista come il prototipo di un apparecchio tv: così negli anni trenta Balla, mentre tanti suoi colleghi seguivano la strada del “ritorno all’ordine” e alla “tradizione primitiva”, torna a ispirarsi alla fotografia con rinnovata determinazione, indagando in particolare il taglio e gli effetti, e continuando a prestare grande attenzione ai mezzi di comunicazione di massa.
Nel superamento del Futurismo, quando il movimento aveva sostanzialmente già esaurito la sua carica propulsiva, egli crea un linguaggio ancora una volta autonomo e originale, scevro da avanguardismi di corrente: da tempo aveva individuato nella moda un sistema particolarmente incisivo di penetrazione nel gusto contemporaneo nella convinzione del primato di modernità che la comunicazione attraverso la moda poteva conferire all’invenzione artistica. Infatti, già nel 1914, Balla aveva mostrato il suo interesse per l’abbigliamento firmando il suo Manifesto del vestito antineutrale nel quale dichiara che gli abiti futuristi debbono essere “aggressivi, agilizzanti, dinamici, semplici e comodi, igienici, gioiosi, illuminanti, volitivi, asimmetrici, di breve durata e variabili”, in “stoffe fosforescenti”, “disegni e colori violenti”. La ricerca di Balla nel campo della moda sarà ampia e originale: il rapporto tra arte e moda inteso come fusione di più elementi di diversa provenienza, incrocio di forme diverse che origina una forma nuova, avrà in lui il pioniere di questa originale alchimia nell’ambito delle avanguardie europee.
Realizza bozzetti di vestiti e tessuti futuristi, inoltre studi per ogni genere di accessorio di moda (giacche e completi maschili e femminili, panciotti, cravatte, scarpe, borsette, ventagli, foulard, sciarpe, maglioni, gilet, tessuti, ricami, applicazioni, mobili, progetti di arredamento, etc.), spesso anche le cornici delle sue opere, che diventano il campo di conquista limitrofo della carica incontenibile della sua pittura, della sua esplosione coloristico-volumetrico-declamatoria, tuttavia antiretorica per natura. L’artista era convinto che il vento del cambiamento dovesse investire tutta l’esistenza umana, compreso il modo di vestire “passatista” in voga all’inizio del secolo, un vestire “statico, mediocrista, neutrale”. Un nuovo modo di vedere l’arte, ma anche un nuovo ruolo per l’arte, non più destinata a riprodurre la realtà , ma con la missione di modificarla.
Dunque, nell’andare oltre il Futurismo, Balla decise di avvalersi di un’alternativa estetica, a cui aveva iniziato a dedicarsi in anni di pieno Futurismo, che avesse altrettanta capacità di sfondamento “moderno” con un linguaggio consono in egual misura alla visione contemporanea del mondo, in sintonia con gli interessi quotidiani della gente: la fotografia di moda che ogni giorno compare su riviste patinate, ammirata e imitata da milioni di persone con aspirazione di modernità, rappresentava la sua rinnovata sfida d’artista attento al “nuovo”, con alla base l’intuizione del valore dell’immagine pubblicitaria sull’immaginario popolare, anticipando quasi l’atteggiamento della Pop Art.
Non sono dunque banalmente “realiste” le opere postfuturiste di Balla, bensì sono elaborazioni di un sistema percettivo sofisticato, còlto da un occhio fotografico e legato a un’interpretazione concettuale e iconica della contemporaneità. Sono possibili confronti con alcune fotografie di moda e di celebrità del cinema pubblicate nei giornali dell’epoca, che illuminano di una luce nuova le ammiccanti immagini di Balla, così vicine a quelle che il pubblico medio tanto apprezzava sui rotocalchi e sullo schermo, rendendo ancora una volta arte quanto in quegli anni egli coglieva come più “moderno”. L’intenzione di far coincidere l’immagine dipinta con l’effetto della rivista di grande tiratura è evidente in un espediente tecnico che egli usa in diversi dipinti, come in Primo Carnera o Andiamo che è tardi: l’artista applica sul supporto un velo di tulle su cui poi dipinge, provocando intenzionalmente l’effetto di “retinatura” che evoca quello prodotto dalle immagini a stampa dei giornali, in un confronto, per l’epoca profetico, con la moltiplicazione seriale dell’immagine già allora propria dei mezzi di comunicazione di massa, e in seguito consueta del mondo figurativo di artisti come Andy Warhol e, soprattutto, Roy Lichtenstein.
In Noi quattro allo specchio (1945) addirittura raffigura le proprie figlie come modelle affermate, in posa glamour entro le mura di casa, esprimendo l’immedesimazione divistica del pubblico tipica della cultura popolare del Novecento.
Ma la modernità di Balla è poliedrica e la sua attualità nasce proprio dal nomadismo della sua ricerca. Dopo la sua morte, gli anni sessanta e settanta sono infatti quelli della riscoperta da parte degli artisti delle nuove avanguardie: il gruppo Forma I, i teorici del teatro-immagine, la pop art romana, l’arte povera. Gli artisti giovani lo riscoprono, quando visitano il suo studio per capire come il colore puro o la forma precisa possano raccordarsi unitariamente con un corretto programma, anche politico. Alcuni di questi si raccolgono intorno alla rivista ‘Arti visive’ che gli dedica il primo importante articolo di riscoperta: Colla, Dorazio, Burri, Turcato, i giovani ripartono da quei triangoli compenetrati e da quegli spazi dinamici che negli anni dieci costituivano il suo ambito di ricerca. Dorazio in particolare studia i quadri futuristi di Balla, traendone modelli formali depurati da ogni risvolto narrativo in opere in cui si avvale solo dell’immediatezza di impatto e della dimensione emotiva delle linee e dei colori. Burri, dopo evidenti tangenze già alla fine degli anni quaranta, nelle serie grafiche degli anni settanta e ottanta, come Sestante, elabora immagini – compenetrazioni cromaticamente fortissime – che molto ricordano il Balla “coloratissimo” della seconda metà degli anni dieci e degli anni venti.
Analogamente, il dilagare dei mass media e l’avvento della società dei consumi, induce Mario Schifano a interessarsi al Futurismo, oltre che alla Pop art americana, e a dichiarare che Boccioni e Balla sono tra gli artisti che lo interessano più di tutti; utilizza lo smalto sull’esempio di Balla, considerando che la pittura deve ormai esprimersi con “colori industriali, freddi, duri, impoetici”.
A testimoniare la perenne, intrinseca modernità del lascito di Balla, autentico big-bang della ricostruzione futurista dell’arte.