2 aprile – 16 luglio 2006
Da Monet ai protagonisti contemporanei, attraverso opere particolarmente significative, molte di notevoli dimensioni, scelte dal direttore del Musée di Saint-Etienne Lóránd Hegyi. Cronologicamente prende avvio appunto con un’opera di Claude Monet, Nymphéas del 1907, facente parte dell’ultima serie dell’artista che, terminata da tempo la stagione impressionista, apre il nuovo secolo all’astrazione decorativa; il percorso continua, lungo la storia artistica di tutto il Novecento, fino ad arrivare alle opere di artisti viventi che esprimono tendenze, umori, problematiche e sensibilità dei nostri giorni come Bernard Frize, Christian Boltanski, Bertrand Lavier.
Monet rappresenta veramente l’incipit ideale della mostra, soprattutto perché uno degli ultimi dipinti acquistati da Magnani è Falaises à Pourville, soleil levant del 1897, che fa parte di una serie di cinque dipinti che il grande pittore impressionista eseguì proprio nel periodo precedente a quello finale delle Ninfee e che costituisce quindi il punto d’incontro fra le due collezioni.
Il Cubismo è rappresentato da una natura morta di Louis Marcoussis del 1925 che appartiene alla seconda fase del movimento con gli oggetti caratteristici del repertorio tipico cubista che, ridotti alla loro struttura semplificata e caratterizzati da una frontalità nata dalla sovrapposizione dei piani e dal trattamento aplat del colore, richiamano la pratica del collage alla quale Marcoussis si era dedicato fin dal 1914. Si prosegue poi con un’opera di grande impatto visivo, Trois femmes sur fond rouge di Fernand Léger, capolavoro assoluto del 1927, in piena sintonia col “retour à l’ordre”, dove le tre figure monumentali si stagliano frontalmente su uno sfondo rosso, occupando tutto lo spazio in maniera prepotentemente plastica e sintetica, preannunciando così l’evoluzione di Léger verso un nuovo classicismo.
Molto interessante anche il lavoro di un’allieva di Léger, Marcelle Cahn che nell’opera Avion-forme aviatique del 1930 sviluppa le sue ricerche spaziali in termini rigorosamente geometrici con un gioco di linee oblique e di forme circolari che lasciano supporre una notevole profondità accentuata da un abile contrapposizione di piani colorati.
La scelta prevede poi Équilibre di Jean Hélion, un dipinto del 1933, dove l’uso di forme circolari e oblique viene a turbare l’ortodossia concettuale del Neo-plasticismo, accentuando anche la sovrapposizione di forme colorate che sullo sfondo nero creano un’illusione di profondità. Portrait di Marchel Duchamp di Jaques Villon l’artista, fratello di Duchamp, che aveva definito se stesso “cubista-impressionista”, ci mostra una tradizione pittorica tipicamente francese che non si è mai esaurita; mentre con Le fiancé di Francis Picabia giungiamo a una stilizzazione, vicina al disegno industriale che incarna il “simbolismo meccanico” di questo artista, lontanissimo dal provare, come invece i Futuristi, entusiasmo per quel progresso che stava trasformando tanto velocemente l’aspetto delle cose e delle città. Nelle opere di Kurt Schwitters la rappresentazione degli oggetti lascia il posto alla presenza di materiale che proclama la propria autonomia come nel significativo assemblaggio in mostra datato 1939-1944, dove i rifiuti urbani sono sostituiti da materiali naturali.
L’automatismo grafico surrealista è ben rappresentato da André Masson con Les Prétendants del 1932, mentre una componente diversa del Surrealismo ci viene evidenziata da Mains et gants di Yves Tanguy, dove viene evidenziato il funzionamento reale del pensiero in uno spazio inquietante dalla profondità infinita. A rappresentare il cospicuo numero di opere di Victor Brauner presenti a Saint-Etienne, quattro capolavori surrealisti di questo artista che mescola alle consuete tematiche oniriche elementi esoterici, animisti e archetipici e li coniuga, ambientandoli nei suoi tipici paesaggi silvestri notturni, in modo inquietante e suggestivo.
Del secondo dopoguerra, a testimoniarne tutto il dramma e il profondo spaesamento degli artisti, un capolavoro di Jean Dubuffet e la pittura gestuale di Hans Hartung e Pierre Soulages, dove la drammaticità rembrandtiana dei neri crea intriganti rapporti luministici.
La Pop Art americana è rappresentata dai due giganti Andy Warhol e Roy Lichtenstein; di quest’ultimo Entablature del 1975 ci offre una autoriflessione semantica che analizza, ingrandendole, le parti ornamentali dei suoi dipinti, mentre del primo abbiamo uno dei suoi geniali autoritratti degli anni Sessanta, veri emblemi della evidente ambiguità dell’essere.
Non poteva mancare Yves Klein con Monochrome I.K.B., del 1957, magica estensione cromatica dove l’inconfondibile blu oltremare dell’artista corrisponde a una spirituale ricerca dell’assoluto. Con Bernard Rancillac la tela si ripopola di immagini accattivanti, molto vicine all’affiche, quasi a creare nell’esposizione una sosta “apparentemente piacevole” prima della nuova reimmersione concettuale con Benjamin Vautier, Fabrice Hybert e coi poetici pannelli di Bernard Frize del 1990. Christian Boltanski, uno dei miti della contemporaneità, conclude la scelta con Conversation pièce del 1991, dove gli elementi più comuni, come le fotografie in bianco e nero e le lampade elettriche che compongono l’installazione, diventano motivo per una riflessione dolorosa sulla vita lasciando, come sempre, la parola al lavoro dell’artista e allo spettatore, a far sì che le sue opere funzionino come uno specchio e che suggeriscano a ognuno elementi della propria vita, consapevoli che nulla ci avvicina alla morte più dei nostri souvenirs
[blue_box]Per informazioni sul catalogo della mostra contatta il bookshop della Fondazione Magnani Rocca tel. 0521 848327 / 848148[/blue_box]