André Breton, nell’Anthologie de l’humour noir (1940), indicava nell’opera di Giorgio de Chirico, e di suo fratello Alberto Savinio, l’origine della mitologia moderna, elaborata attraverso la creazione «di un linguaggio altamente simbolico, concreto, universalmente intelliggibile in quanto tende a testimoniare con il massimo rigore la realtà specifica dell’epoca … e l’interrogativo metafisico proprio di quest’epoca».
Segnalava altresì nella produzione immediatamente precedente la prima guerra mondiale «il punto più alto» raggiunto dalla loro ricerca – alimentando la polemica che aveva motivato la rottura di de Chirico con il gruppo surrealista -, ma soprattutto poneva in rilievo la qualità del rapporto che nelle opere di de Chirico si instaura «tra gli oggetti nuovi… e quelli vecchi, abbandonati o meno»: «è tra i più inquietanti in quanto esaspera il senso della fatalità».
Appartiene proprio al 1914, l’arcano dipinto Enigma della partenza. Opera pienamente metafisica, a cominciare dal titolo, in cui ricorrono alcuni dei termini di maggior significato nella teoria e nella prassi dechirichiana: l’enigma, il mistero che la lettura dei filosofi aveva insegnato a scorgere dietro le apparenze più consuete, e la partenza, il momento mitico per eccellenza, quello che trasforma l’uomo in eroe, in errante, in esploratore dell’ignoto.
E proprio alla scoperta dell’ignoto, del senso nascosto delle cose mirava la ricerca lucidamente intrapresa dall’artista, teso a cogliere l’identità profonda della realtà circostante che solo si rivela a uno sguardo nuovo – metafisico, ossia capace di andare al di là della realtà fisica – o in una particolare condizione dello spirito.
Quella, per esempio, in cui si è compiuta la metamorfosi che ha reso il pittore un veggente nell’episodio fondante del 1910, quando in piazza Santa Croce, a Firenze, era riuscito a restituire «quel forte e misterioso sentimento … scoperto nei libri di Nietzsche: la malinconia delle belle giornate d’autunno, di pomeriggio, nelle città italiane». Vale a dire, il sentimento dei nati sotto Saturno, come la maggior parte dei veri artisti e dei filosofi, e il tempo annunziato da Zarathustra, il «grande meriggio» di cui parla il cantore dell’eterno ritorno. Quelle ore a durata infinita in cui le ombre si allungano come nel dipinto di de Chirico, l’esploratore, il veggente, agli occhi del quale si ordinano le teorie degli archi, si raddrizzano le prospettive dei palazzi e delle strade, si collegano passato presente e futuro nelle forme geometriche dei blocchi di pietra e nel monumento scolpito rivolto verso il mare lontano, memoria che sfida il tempo.
Alla precisione nel disegno e nel trattamento pittorico, delle quali testimonia il dipinto in oggetto, colui che nel 1919 inviterà gli artisti a far “ritorno al mestiere”, giungeva attraverso un metodo di lavoro accurato quanto tradizionale, consistente nella realizzazione di una serie di studi preparatori, variamente completi e perfezionati, al termine dei quali procedeva alla quadrettatura per il riporto della composizione sulla tela.