Invasione pop nella villa del professore

di Stefano Roffi, estratto dal catalogo ITALIA POP — l’arte negli anni del boom.
Luigi Magnani, l’artefice della Fondazione Magnani Rocca, frequentava abitualmente Roma negli anni – i fatidici sessanta – in cui si andava diffondendo il gusto pop; tuttavia i sussulti epocali di quel decennio, che videro la capitale molto coinvolta e che avrebbero portato a mutamenti radicali nella società e nel costume, paiono non sfiorarlo neppure. Oltre ai palazzi dell’aristocrazia colta e ai salotti culturali romani più esclusivi, ben note gli erano le residenze dell’amico Mario Praz, dove egli spesso si recava per coltissime dissertazioni, prima a Palazzo Ricci in via Giulia, poi a Palazzo Primoli in via Zanardelli. Con Praz, accademico dei Lincei e docente di Letteratura inglese all’Università La Sapienza, Magnani condivideva la passione per l’arte e in modo particolare per l’antiquariato; da lui riceveva spesso informazioni su arredi Impero che sarebbero andati ad arricchire le sue dimore. A partire dal 1949, proprio La Sapienza aveva affidato a Magnani l’insegnamento di Storia delle arti decorative del manoscritto e del libro, che egli manterrà, in varie forme, fino al 1976, soggiornando prima nella sontuosa Villa Nibby sulla via Nomentana poi negli alberghi più lussuosi.

Praz non poteva permettersi di collezionare capolavori; la sua era una tipica raccolta omogenea e borghese di un eccellente conoscitore, come anche la sua dimora era una ricostruzione storica di un ambiente dei primi dell’Ottocento di ceto elevato. Era lui a illuminare e a infondere vita ai suoi acquisti, quasi mai di provenienza altolocata: lo divenivano attraverso di lui. L’intendimento e la situazione economica di Magnani erano ben diversi. Ricchissimo, unico erede di una fortuna costruita sull’industria casearia, egli aveva la possibilità, e lo fece, di mirare alto nei suoi acquisti, di costruire una collezione formidabile, un monumento perenne, esteticamente e accademicamente inattaccabile. Un oggetto, un dipinto, per essere degno dell’acquisto doveva avere fra i requisiti di essere di autore importante, anzi eccelso, raro, introvabile, ma anche la provenienza doveva essere impeccabile e altolocata. Il cognome doveva essere di patriziato indiscutibile: Serristori, Ruspoli, Talleyrand, Odescalchi, Demidoff.

In un celebre film di Luchino Visconti del 1974 Gruppo di famiglia in un interno, il protagonista è un Professore che ospita, suo malgrado, un accolito di inquilini borghesi e volgari al piano di sopra del suo palazzo romano ricco di arredi preziosi e libri antichi. Il film ritrae gli interni di una casa che somiglia a quella di Praz. Per il ruolo del Professore, Visconti scelse Burt Lancaster, il principe di Salina de Il Gattopardo del 1963, l’assioma del nobile decadente di fronte alla irruente mediocrità della nuova borghesia, personaggio che anticipa la figura del Professore in piena contrapposizione con l’oggi rappresentato da figuri senza sensibilità e rispetto per l’arte e il bello. Il tema dell’isolamento intellettuale del Professore si affianca così a una galleria di ritratti viscontiani che, oltre al Gattopardo, già comprendeva il sognatore delle Notti bianche, il solitario von Aschenbach di Morte a Venezia, la regale misantropia di Ludwig.

L’indole saturnina di Luigi Magnani, la malinconia non passiva dell’intellettuale appartato che in vita rifuggiva la retorica dell’arte per tutti e frequentava gli artisti, interessandosi alla loro opera e facendone oggetto di studio, in un’aura di eletta spiritualità, assai dubbioso che all’incremento dell’interesse per l’opera d’arte conseguisse una sua migliore comprensione, corrisponde all’atteggiamento del Professore e degli altri personaggi di Visconti, al rifiuto del protagonismo di tendenza per una forma di militanza claustrale, di sciopero del clamore, di fastidio dell’esibizione di sé.

Sempre in Gruppo di famiglia in un interno, un secondo personaggio si presenta come antagonista esistenziale del Professore: il dissoluto Konrad, interpretato da Helmut Berger. Insieme ad alcuni compagni riesce a forzare la volontà del padrone di casa e a stabilirsi nell’appartamento del piano superiore. Sarà il principio della fine: i vicini si riveleranno infatti come una sorta di orda inarrestabile e distruttrice della calma fuori dal tempo del palazzo nobiliare e dei suoi arredi. In un crescendo di turpiloqui e immoralità, il Professore giunge all’amara riflessione di avere inseguito un sogno utopico, nella costruzione di un habitat avulso dalla realtà, che il perturbante “inquilino del piano di sopra” gli ha rivelato come tale.

Mario Schifano a Palazzo Primoli, Roma. Archivio Mario Schifano
Mario Schifano a Palazzo Primoli, Roma. Archivio Mario Schifano

La “casa psichica” di Visconti è come quella reale – l’appartamento museo – di Praz, nel palazzo dove nel 1974 era andato ad abitare il pittore Mario Schifano – il più noto esponente della Pop Art italiana – un inquilino ingombrante per le sue vorticose frequentazioni. Come inquietante era per lo stesso Visconti, nella vita oltreché nel film, Helmut Berger, legato al regista da una movimentata relazione. Schifano, infatti, appena dopo essere uscito dal carcere, per una cifra esorbitante aveva preso in affitto mille metri quadri al Museo Napoleonico di Roma all’ultimo piano di Palazzo Primoli; in una folle convivenza, il suo vicino era appunto Mario Praz, l’anglista eccelso, il Professore appartato, e anche il solerte amministratore del condominio, dove da pochi anni aveva traslocato (nel 1969) la sua Casa della Vita, da Palazzo Ricci di via Giulia. In questo enorme appartamento Schifano riceveva tutta la sua grande corte; vi aveva allestito una sala cinematografica e una sauna, e amava invitare gli amici e i loro amici, mentre lui vagava in quegli spazi a qualunque ora del giorno e della notte, tra una donna e l’altra, magari con la bicicletta regalatagli, in quanto antico ciclista, da Felice Gimondi; tutto senza badare alle vetrate sul Lungotevere.

Erano in tanti a innamorarsi di Schifano, da Alberto Moravia a Renato Guttuso a Goffredo Parise, che hanno anche scritto dei suoi tumultuosi notturni. E la sua compagna Nancy Ruspoli organizzava una tavola da pranzo principesca: sontuosa ma con poco cibo, proprio come da Gianni e Marella Agnelli, dove Mario stava dipingendo una meravigliosa sala da pranzo con sciami di stelle e palme luminose, come in un notturno fluorescente di Van Gogh. Confidava a un amico libraio il professor Praz: “Quel selvaggio! Televisori accesi a pieno volume, gente losca che va e che viene, un continuo scalpiccio… Gira persino in bicicletta per casa!”. Queste erano le lamentazioni del professore e, naturalmente, parlava di Schifano.
Nel portico del portone di Palazzo Primoli era parcheggiata una Rolls-Royce, l’automobile con cui Schifano si esibiva in giro per Roma. Visitatori occasionali ricordano la grandissima sala d’ingresso come un inferno: una sorta di Factory de noantri con pareti di televisori, tutti accesi, alternati, sui due soli canali televisivi allora esistenti e un marasma di assistenti intenti a perfezionare l’opera del Maestro Schifano, nella miglior tradizione delle botteghe d’artista. L’abitazione privata di Praz, oggi museo, era l’oggettivazione del suo Io, un mausoleo. Quella mancanza di vita, in un rispecchiamento dell’Io sublimato che si riconosceva negli oggetti raccolti, era una contemplazione della morte sottoforma di vita, restituita dalle conversation pieces che collezionava; riempiendo la casa di cose non vive, imbalsamando attimi incorporei di tempo e possedendo un’esistenza che non gli apparteneva, egli considerava che tutto dovesse restare immune dalla contaminazione del mondo, a prezzo dell’isolamento, perché tutto fosse perfetto e intangibile nella contemplazione della bellezza.

Schifano era andato ad abitare a Palazzo Primoli subito dopo la lavorazione di Gruppo di famiglia in un interno. Aveva dichiarato di voler abbandonare la pittura e dedicarsi al cinema, da lui giudicata arte viva, non gli interessava Morandi, non lo riguardava Pollock, apprezzava Raushenberg come uomo e non come pittore; amava Boccioni, Balla, de Chirico, Picabia, Picasso, Jasper Johns, Jim Dine. Come artista si dava alle più sperimentali incursioni maledettistiche fin nel mondo delle droghe pesanti – per “puro vizio” come dichiarerà – e Praz era vistosamente imbarazzato di averlo come vicino. Schifano faceva un gran chiasso, era scomposto, assordante, ambiguo senza ritegno, inquinava il silenzio della sua solitudine, lo disturbava. Il Professore aveva perso la pace; amico dei Rolling Stones e fan del rock-and-roll, l’artista rappresentava tutto quanto egli trovava di più nocivo e pericoloso nella cultura degli anni sessanta. Schifano, per contro, adorava Praz, bombardandolo di inviti; desiderava, in particolare, una copia con dedica de La casa della vita, forse il titolo più noto del Professore. Alla fine un volume venne lasciato fuori dalla porta di Schifano, con una dedica di pugno dello studioso “A Mario Schifano. Così vicino, ma così lontano”.

Questa singolare situazione circolò nel mondo artistico-letterario romano dei primi anni settanta e colpì Luchino Visconti per la portata profetica che il suo film veniva ad assumere. A Praz come alter-ego del regista, alla sua casa-museo, alla sua rinuncia al mondo esterno, alla defunzionalizzazione del suo sapere (e, d’altro canto, a Schifano trasfigurato a posteriori nella volgare e attraente famiglia di inquilini, emblema dell’invivibilità del presente, che vengono a invadergli l’abitazione), si era infatti ispirato lo sceneggiatore Enrico Medioli per il personaggio del Professore. Visconti ne fece un film-requiem tutto girato in interni, come a teatro, citando la Recherche di Proust, dove si parla di un inquilino immaginario al piano di sopra che si aggira, inquietante, misterioso, una metafora della morte. Come Praz nella sua casa, il protagonista cinematografico non ha interlocutori veri, e se mai sono più i mobili e i quadri che le persone: una vera “psicologia dell’isolamento”. Di fronte all’invasione dell’esterno e del presente chiude la porta della sua casa: a Palazzo Primoli entrano solo singoli ospiti, in genere ben scelti, come a Villa Magnani, dimora dell’altro Professore, Luigi Magnani. Come afferma il Professore del film «Vivendo tra gli uomini si è costretti a pensare agli uomini, invece che alle loro opere, a soffrire per loro, a occuparsi di loro. E poi, qualcuno ha scritto: “I corvi vanno a schiere! L’aquila, vola sola”».

La caduta dei calcinacci e le perdite d’acqua per i lavori di ristrutturazione dell’appartamento al piano superiore – trasformato in un attico alla moda con quadri contemporanei – che il Professore del film ha acconsentito, riluttante, ad affittare allo strano e chiassoso gruppo che ha invaso la sua vita, sono il segno tangibile che l’irruzione dei nuovi inquilini – dopo un apparente, illusorio sprazzo vitale – porterà alla contaminazione e poi alla fine del suo mondo.

Così scrive Praz a Magnani in una lettera datata ‘Roma, 24 II 68’

Carissimo Gino,

Stamani è arrivata la tua fragrante ambra maccheronica e te ne sono molto grato.

Come avrai visto dai giornali, dopo una breve tregua gli studenti hanno rioccupato la facoltà, stavolta con violenza, malmenando i bidelli del Rettorato. Non si sa come finirà. Ora non vogliono solo le riforme, vogliono proclamare un nuovo stato: hanno sbandierato sulla torre delle Milizie la divisa: “Potere studentesco” Wille zur Macht. Pare che il loro pontefice voglia occupare il Vaticano e proclamarsi pontefice sul serio o nuovo Mao-matto. Quanto son lieto di non aver più da insegnare! Tuo aff. Mario

Il Sessantotto visto con gli occhi di un conservatore: lo stesso atteggiamento Praz lo avrà verso il movimento del 1977, come è chiaro anche dalla lettera a Magnani datata ‘7 XII 1977’ dove a proposito dei visitatori di una mostra parla di “hippies, autonomi, le donne tutte streghe”.

Come a turbare il mondo sospeso e protetto del Professore di Visconti era giunta la banda dei giovani invasori e Schifano con la sua Factory romana aveva sconvolto l’Olimpo neoclassico del Professor Mario Praz, irrompe ora nella Villa dei Capolavori, tempio dell’arte atemporale e atarassica voluto dal Professor Luigi Magnani, il mondo chiassoso, un po’ brutale e bohémien, del tutto calato nella contemporaneità degli artisti pop.
In un sorprendente confronto tra il mondo classico e la cultura popolare degli anni sessanta, accanto alle opere celeberrime di Rubens, Van Dyck, Canova, Goya, Monet sono esposti oltre settanta lavori pop provenienti da prestigiose raccolte private e pubbliche; fra queste il Mart, lo CSAC, la Collezione Maramotti, la Fondazione Marconi, la Collezione Intesa Sanpaolo, la Collezione Koelliker, la Fondazione Arnaldo Pomodoro, il Museo d’Arte Contemporanea di Lissone e molte altre.

Magnani si sentì una sola volta a disagio dopo l’acquisto di un quadro: il Füssli con una scena dell’Amleto e l’apparizione dello spettro lo aveva intrigato; ma l’eccesso scenografico e il trasalimento angoscioso espresso dal dipinto lo avevano ben preso deluso, lui che cercava opere abitate dallo spirito, che mostrassero essenzialità, purezza, perfetta forma, mancanza di agitazione, una pace opposta all’angoscia. In comune con Praz erano il gusto per l’Impero e per i quadri conversation pieces di cui Magnani si era accaparrato la massima espressione, il grande Goya La famiglia dell’infante don Luis.

Non stupisce dunque, fra i tanti capolavori di ogni tempo, di trovare nella collezione Magnani a rappresentare gli anni sessanta – gli anni pop – alcuni Morandi ormai rarefatti, apoteosi della sottrazione, lascito estremo di un maestro del rigore, oltre ai segni di Fautrier e Hartung, gesti puri di creazione istantanea che intervengono sull’assenza, e alle materie scorticate e sofferenti del Leoncillo disilluso degli ultimi anni, in una visione estrema da parte del collezionista, ma forse per questo ancor più consapevole e conservatrice, della misura classica, del primato dell’intelletto e della forma sulla sensualità e sull’istinto. Lo spirito classico che sovrasta il tempo, il valore eterno della bellezza, privo di turbamenti – che si può ritrovare in un brano degli amatissimi Mozart e Beethoven, come in una pagina di Goethe, come in ognuna delle opere volute – rappresentano l’identità della raccolta Magnani; all’opposto delle opere pop che invece esprimono, anche nel collegamento alla classicità, il valore catastematico dell’immagine con tutto il suo portato anche emotivo che si sovrappone, superandola, all’identità storica dell’opera d’arte.

Paradossalmente, la scelta che più avvicina Magnani alla Pop art è il quadro di Monet, l’artista che, nella serialità e iconicità dei suoi soggetti, in qualche modo anticipa una delle attitudini identitarie del movimento pop. Mentre l’aspetto che di fatto accomuna il Professore di Mamiano e la Pop Art italiana è il rapporto irrinunciabile con la cultura alta.

Un artista pop americano dipinge la Coca Cola, la confezione del detersivo più diffuso, la diva del momento o un fumetto vendutissimo, come un valore nazionale, un simbolo popolare; per Tano Festa, Giosetta Fioroni, Roberto Barni e altri italiani, Michelangelo, Botticelli, Paolo Uccello negli anni sessanta hanno quello stesso significato, nel senso che nel nostro Paese il consumo delle immagini d’arte appartiene al percepito quotidiano, facendone spontanea mitologia. Gli affreschi della Cappella Sistina e le sculture delle Cappelle medicee di fatto non appartengono solo agli storici dell’arte, ma a una massa indistinta di persone che ogni giorno ne consumano le immagini, per cui non esiste più un solo Michelangelo, ma tanti quanti sono i visitatori che lo osservano, ognuno legittimato a far parte del mondo delle immagini allo stesso modo delle star del cinema, le automobili o i cartelli stradali. L’artista riconosce la distanza da sé e dal pubblico di simili monumenti della storia dell’arte, impossibili da superare, e ne amplifica il distacco attraverso l’iscrizione iconografica nei fotogrammi della sua pittura armando il proprio procedimento creativo con strumenti di dialogo e di citazione, dietro i quali preme una essudazione di pittura che sgorga dalla civiltà figurativa che appartiene al nostro patrimonio visivo. Un lavoro alla ricerca di un non facile equilibrio fra l’ondata pervasiva del consumismo e la seduttività intrinseca dell’arte italiana classica ma anche novecentesca.

La folgore della Pop Art americana portava la ricognizione urbana a condizione artistica. Le immagini della città e della produzione industriale venivano assunte a pretesto per un’operazione linguistica capace di spostarle dal piano basso della loro provenienza a quello alto della produzione artistica. La città americana, luogo di vitalità e di tensione esistenziale, si poneva d’altro canto come crogiolo di molte istanze, di consumismo collettivo e di solitudine individuale; così per traslato lo scenario italiano. Diversa però l’identità di una città come Roma, produttrice di ben altre immagini rispetto a una città americana, di un passato divenuto paesaggio e storia e innanzitutto storia dell’arte. Anche qui batte la vita moderna, ma filtrata da una condizione storica in cui i simboli e i miti non sono il grattacielo ma il Colosseo e i Fori romani. Dunque, fra gli artisti italiani, se, dopo la fase di azzeramento portata dall’Informale, bisognava inscrivere sulla superficie del quadro e della scultura un’immagine, allora non si poteva prescindere dalla realtà sedimentata nei luoghi attorno a loro e nello spirito.

Di fatto Luigi Magnani – in vita gelosissimo custode della propria collezione che concedeva alla visione di pochi eletti meritevoli, per levatura personale, di contemplare ora i Cézanne ora il Tiziano, mai le opere tutte, al punto da respingere persone considerate non degne e da rifiutare ogni forma di documentazione fotografica dei saloni della sua dimora – nel compimento del progetto di godibilità collettiva che la gestazione della Fondazione comportava, ha in qualche modo compiuto un’operazione istituzionalmente pop; così ora le opere della sua raccolta, prima negate a occhi profani, assurgono a fama popolare, moltiplicandosi attraverso cartoline, fotografie, Instagram e assumendo gli infiniti significati che il pubblico con familiarità loro attribuisce, magari applicando al frigorifero il magnete raffigurante un capolavoro futurista accanto a quello di un fumetto o della bottiglia della Coca; l’opera d’arte acquisisce così un’identità parallela a quella più propriamente storico-artistica, e la notorietà dell’immagine contribuisce fortemente all’interesse per l’opera stessa, indipendentemente dalla sua importanza, divenendo addirittura un moltiplicatore del suo valore economico. In qualche modo Magnani, concedendo le opere al pubblico, ha realizzato anche una sublime operazione di business art. Lui che col mondo pop aveva avuto soltanto una remota tangenza quando all’inizio degli anni ottanta il regista Paul Morrissey, primo collaboratore di Andy Warhol nella sua Factory, diresse il film Il nipote di Beethoven sceneggiandolo da un noto romanzo di Magnani.

Per essere degne di entrare nella sua Villa dei Capolavori, per Magnani le opere dovevano anche corrispondere alla sua idea dell’arte, e della qualità nell’arte; un’idea, come si è detto, aristocratica, che non variava tra pittura, scultura, musica e letteratura, gli interessi culturali che egli coltivava alla ricerca di correspondances baudelairiane. Nonostante la sua sensibilità per l’arte di ogni tempo e la sua apertura al dialogo fra le espressioni artistiche, siamo certi che avrebbe mal tollerato l’intrusione di impertinenti sculture in coloratissimo metacrilato nei saloni della sua dimora, presenze pop in ambienti dominati dal biancore dei marmi di Canova e Bartolini, o vocianti pitture acriliche con scene di contestazione; in vita mai lo avrebbe permesso, come mai avrebbe considerato credibili opere d’arte le rappresentazioni di immagini e oggetti tratti dalla banale quotidianità.

Era interessato al Futurismo, ben rappresentato nella sua collezione; per questo la Fondazione ha organizzato fra il 2015 e il 2016 grandi monografiche su Balla – del quale si è spiegata l’intuizione del valore dell’immagine pubblicitaria sull’immaginario popolare, anticipando quasi l’atteggiamento della Pop Art – e subito dopo Severini. Il grande trittico di Schifano Futurismo rivisitato del 1965, presente in mostra, rappresenta un collegamento fortemente simbolico con l’attività espositiva recente; Schifano non a caso riconosceva apertamente il proprio massimo interesse per il lavoro di Balla e degli altri grandi futuristi. Peraltro proprio a Parma nel 1974 venne ospitata la prima importante retrospettiva di Schifano a cura di Arturo Carlo Quintavalle, che permise di leggere per intero l’ampiezza del lavoro dell’artista e di definirne le linee portanti.

Nella collezione di Luigi Magnani sono presenti anche opere capitali di Giorgio de Chirico e Alberto Burri che, al di là degli intendimenti del collezionista, rappresentano una significativa contestualizzazione storica per alcune istanze della Pop art italiana.

Attesa e sospensione dominano in Enigma della partenza di de Chirico, olio datato 1914, dove sono presenti i simboli nietzschiani della vela e del mare, metafore delle avventure della mente e di un itinerario dello spirito tra gli enigmi dell’esistenza: non a caso, gli ultimi “Biglietti della follia” di Nietzsche inviati da Torino costituiscono uno dei temi letterari prediletti da de Chirico e dal fratello Alberto Savinio. Magnani peraltro frequenta Savinio a Roma; Angelica, figlia del pittore, è inquilina di Magnani nella capitale: titolare della Galleria Il Segno in via Capolecase, Angelica Savinio è promotrice della prima ora in Italia dell’arte pop anglo-americana con artisti come Warhol, Jones, Lichtenstein. Negli anni sessanta de Chirico deponeva le armi della personale polemica nei confronti delle Avanguardie, in concomitanza con la nuova fase stilistica della “neometafisica”, caratterizzata dal recupero delle tematiche originarie – i bagni misteriosi, i mobili nella valle, gli archeologi – rivisitati con un colore nuovo e più acceso e con un’inedita vitalità. Già nel 1963 Maurizio Calvesi, nell’introduzione al catalogo della mostra di Tano Festa alla Galleria Odyssia di Roma, aveva impiegato il termine “neometafisica” riferendosi agli artisti della giovane scuola di piazza del Popolo specificando come tale denominazione evidenziasse, in quei giovani, “una scansione non di spazi ma di momenti, o di vuoti, di tempi vuoti. Il vuoto può essere un’idea cosmica, d’infinito, o corrispondere a una forma aperta, ma trova una sua cornice regolare, come le piazze di de Chirico, quando è la sospensione di un’idea, la testimonianza di un limite e di una vacanza, quando è nostalgia (nel caso di de Chirico) o invece attesa di un pieno… proiezione di uno stato ricettivo di attesa”. La sospensione conseguita dai pop romani degli anni sessanta attraverso scarti spazio-temporali di una realtà quotidiana che invariabilmente si ammanta del “silenzio delle cose” è conseguenza diretta di quella “evocazione spettrale di quegli oggetti che l’imbecillità universale relega tra le inutilità”, come li descrive lo stesso de Chirico in Noi metafisici del 1919.

Quasi a consacrare il legame fra la metafisica di de Chirico e la Pop Art, Andy Warhol, all’inizio degli anni ottanta, realizzò la serie After de Chirico, con la rivisitazione in chiave pop di alcuni dei soggetti metafisici più noti del maestro italiano. Due artisti appartenenti a mondi lontanissimi, con il concetto di serialità in comune: per Warhol, oltre che una cifra stilistica, fu una vera ossessione; anche de Chirico, però, scelse di replicare volutamente sé stesso, ripetendo negli anni sessanta le proprie opere degli anni dieci e venti. In definitiva furono entrambi portatori di immagini figlie della cultura del proprio periodo, eppure capaci di vivere fuori dalle intemperie del tempo e della storia.

Un ‘Sacco’ di Alberto Burri del 1954 entrò nella collezione Magnani anche grazie al suggerimento di Cesare Brandi e al benestare di Giorgio Morandi, che ne apprezzava il rigore formale. L’influenza di Burri sugli artisti pop passa attraverso il movimento del cosiddetto “Nouveau Réalisme”, riunitosi nel 1960 attorno a Yves Klein, assumendo nelle opere materiali e oggetti tra i più svariati. Nel “Nouveau Réalisme” militò anche Mimmo Rotella, noto per i suoi “manifesti strappati”, nella cui genesi, a partire dal 1954, è evidente l’influenza burriana. Inizialmente l’artista, una volta staccati dal muro gli affissi, ne esponeva il rovescio e non le immagini, giocando con la trama informale delle macchie, dei grumi e slumacature di colla; seguiranno negli stessi anni cinquanta manifesti presentati al recto, di trama più fittamente e ancora burrianamente materica nel linguaggio delle lacerazioni e nelle sovrapposizioni di strati, poi altri di maggiore leggibilità ed efficacia iconica, con scritte, lettere, immagini destinate a esercitare, a loro volta, un’influenza sulla nascente Scuola romana di piazza del Popolo e ad annunciare la Pop Art.

Dopo la gestualità estenuante dell’Informale, che riportava tutto al valore dell’espressione interiore, l’opera di Burri veniva colta come l’unica che sembrava garantire il riferimento anche alla vita esteriore, a quella dell’oggetto quotidiano vibrante di esistenza nascosta e silenziosa, capace di darsi come testimonianza del tempo e del vissuto grazie al linguaggio intrinseco della materia. A Roma, dove Burri viveva, la suggestione del suo modello operò quindi largamente già negli anni cinquanta e maggiormente nei sessanta, quando la Scuola di piazza del Popolo si contraddistingue per l’uso originale delle più svariate materie, che nel lavoro di Burri ormai si moltiplicano, dalle garze ricoprenti di Franco Angeli e dalle stoffe di Cesare Tacchi, ai profili di tavole in legno grezzo di Mario Ceroli, che hanno un provocante aspetto di materia “povera”, esibita nelle sue accidentalità naturali. Ceroli intitola significativamente a Burri una scultura “ambientale” del 1966, mentre Pino Pascali sviluppa l’idea burriana dei “Gobbi” nelle sculture centinate e impiega materie tra le più inedite, paglia, lana di ferro o terriccio, rafforzando la libertà operativa derivante dalla disinvoltura di Burri nell’utilizzare e trasgredire la bidimensionalità del quadro.

Per concludere, dopo il dovuto omaggio “profetico” a due capolavori della sua strepitosa collezione, confidiamo nel perdono di Luigi Magnani per questa invasione nella sua Villa.