La Parigi di De Pisis

Giunto a Parigi, per circa quattro anni de Pisis alloggia in vari hotel fino al 1929, quando si stabilisce nella casa-studio di rue Servandoni 7, vicino alla chiesa di Saint-Sulpice.

Fin dal 1925 il giovane flâneur si perde nelle vie della città, studia nelle gallerie e nelle chiese, al Louvre vede Poussin, la pittura italiana, scopre Manet dal vero. Dipinge moltissimo, scrive diari e poesie: la sua opera in breve tempo cambia luce, risente della nuova aria di Parigi, la sua tavolozza si apre a un espressionismo più inquieto.

Filippo de Pisis, La Torre Eiffel, 1939, olio su tela, collezione privata
Filippo de Pisis, La Torre Eiffel, 1939, olio su tela, collezione privata

Una delle tele del primo soggiorno parigino, I pesci sacri (1925), è ancora un omaggio a de Chirico, da poco trasferito nella capitale francese. De Pisis cita intenzionalmente I pesci sacri (1918) dell’amico e lascia sullo sfondo un messaggio cifrato, un particolare del quadro Un saluto all’amico lontano (1916): è il manifesto di una poetica ormai divergente da quella dechirichiana, basata anche sulla sensazione. Nella suggestiva Natura morta con i tarocchi (1926), il riferimento al Surrealismo, con cui forse entrò in contatto a Parigi, è evidente: la carta del “matto” (l’artista-girovago) è accoppiata all’asso di bastoni, simbolo di affermazione e successo.

Il genere della “natura morta marina”, in cui de Pisis si distingue, ha successo tra il pubblico francese; Raimondi nel 1941 volle individuare una fonte precisa nel quadro di Manet Sur la plage (1873), ma il gioco delle fonti, che indubbiamente riconduce alla tradizione francese e al colorismo veneto (da Chardin a Tiepolo, al Bassano) soccombe all’urgenza di esprimere, come rivela lo stesso autore: “ il travaglio della nostra epoca, un po’ del nostro cruccio e del nostro martirio. Non si tratta semplicemente di conchiglie, di frutti, di oggetti in riva al mare. Il mare talora entra come puro elemento lirico; [nature] morte, ma cose vive nella grazia delle loro forme e del loro colore, si riallacciano così, nel loro palpito ignoto, al respiro universale, al suo mistero”.

Dal polo opposto lo spazio della città, col traffico brulicante, è il luogo creativo scelto dall’artista, tra i discorsi in un café, le serate galanti, gli inviti, le feste mondane di cui teneva memoria in un diario apposito, come appare nella Natura morta con la scritta feste (1927). Il plein air appagava il suo narcisismo e lo portava a contatto con un’umanità nuova. Una mappatura degli spostamenti per la città di Parigi rivela come egli trasferisca la sensibilità dei vicoli di Roma, i segreti delle corti di Ferrara o delle calli di Venezia. Predilige i Lungosenna per coniugare un brano di natura, l’acqua del fiume, alla circolazione di mezzi e persone, all’apparire di monumenti, brani archeologici, in mezzo alle insegne dei negozi. Lungosenna al Pont Neuf (1927) riprende uomini e personaggi al lavoro, insieme alla statua di Enrico IV e allo scorcio monumentale; Primavera a Parigi (1928) attesta il momento serale in cui le luci dei semafori si accendono sul verde dominante della macchia di natura, in una sorprendente esplosione cromatica; in Quai de la Tournelle (1938), invece, i rami degli alberi come bave di ragno, sembrano avere il sopravvento su uomini e cose. La metropoli di de Pisis pulsa e cambia continuamente pelle, come muta anche il suo stile nel corso di un decennio. La lezione di Soutine, di Matisse, oltre al magistero di Vlaminck e Rouault, sono sempre più evidenti. In Torre Eiffel (1939) l’artista intende rendere l’immateriale, l’inesprimibile in pittura: l’aria, la luce, che lasciano affiorare lo scheletro del monumento.

A un mondo povero rimandano anche le fisionomie, veramente nuove, degli immigrati neri nella capitale, per lo più umili lavoratori: questi volti quasi ferini nascondono una naturale eleganza che il pittore traduce nell’espressionismo della Testa di negro (1926), forse un immigrato olandese, di cui evidenzia, come ferite, il rosso dell’interno degli occhi sotto la falda di un cappello dalle linee quasi astratte. Il marinaio francese (1930) può essere assunto a simbolo di una nuova felicità pittorica: nella fissità dello sguardo stupito, quasi da animale braccato, vi è una reminiscenza dei ritratti del Fayyum ammirati al Louvre, mentre gli oggetti sullo sfondo, un guantone e una piccola scatola, rimandano all’enigma metafisico.

Un documento della vita di de Pisis a Parigi è in una lettera autoironica al critico Cesare Brandi del 1935: “Le mie ore (…) volano in un intrigo in un labirinto (…) di occupazioni (chiamiamole pur così) tra pennelli e pignatte tra fiôri e amôri tra alt! Altolà infilare lo smoking, fare toilette passarsi le unghie con il Cutex, cuocere (e a punto!) la salsa di tonno (oggi è venerdì) per i vermicelli (si troveranno qui fra un po’!) accendere le torce rosse delle messe nere, lasciare la tavolozza attaccare un bottone, cercare una parola in 5 dizionari di diverso calibro (ne ho uno in due volumi della Accademia (1811) con legature in pelle e caratteri deliziosi) resistere alla tentazione di andar aprire a chi (?) suona, congedare modelle che si presentano “le maître est absent” leggere Voltaire, Cicerone, Shakespeare le C.te de S. Maure, fare il the! (importantissimo!) combinare nature morte (êl è nôva…!, dicono a Bologna) che non dipingerò mai, scrivere versi immortali (pérdon) e anche un po’ dipingere…”