E’ il 1926 e in una galleria indipendente di New York inaugura la mostra di un giovane artista che si fa chiamare “Uomo Raggio”.

Le sue opere sono esperimenti visivi di avanguardia, sono collage colorati con l’aerografo che ruotano creando effetti ottici e tridimensionali.

I critici americani non lo capiscono, lo giudicano folle e inadeguato, un giornalista lo arriva addirittura a definire “un degenerato e un drogato”. Non sanno che invece si tratta di uno degli artisti più incredibili dell’Arte del Novecento.

Pochi mesi dopo quella sfortunata prima mostra tutto cambia, improvvisamente. Man Ray (all’anagrafe Emmanuel Radnitzky) conosce Marcel Duchamp e diventa dadaista, ma soprattutto acquista la sua prima macchina fotografica. Comincia a sperimentare con la luce, le pellicole e i sali di argento inventando nuove tecniche fotografiche come la “solarizzazione” e i “rayogrammi”.

“Dipingo ciò che non posso fotografare. Fotografo ciò che non voglio dipingere. Dipingo l’invisibile. Fotografo il visibile”.

Non passa molto tempo che Duchamp e Man Ray si trasferiscono a Parigi, la città che in quel momento è la capitale mondiale dell’Arte. Qui Man Ray fotografa alcuni dei più importanti personaggi dell’epoca come James Joyce, Gertrude Stein, Jean Cocteau. E poi conosce i Surrealisti come Magritte, Dalì e naturalmente André Breton, diventando di fatto il fotografo ufficiale del gruppo.

Con il Surrealismo Man Ray riesce a dare un senso a tutte le sue sperimentazioni. I rayogrammi, le solarizzazioni e i collage si rivelano come l’espressione di quell’automatismo psichico puro che è la porta di accesso più autentica all’inconscio.

La pellicola riesce a catturare quello che all’occhio sfugge, l’occhio della macchina fotografica diventa un’estensione dell’occhio dell’artista.