“Nelle mie fantasticherie, le mie innamorate erano sempre prigioniere. Come al museo dietro ai vetri, etichettate, intoccabili, col guardiano.”(M. Campigli, da “Scrupoli”, 1955)
Campigli imprigiona le sue donne. Questa affermazione forte può trasmettere un senso di violenza che esaminando i quadri dell’artista si trasforma in qualcosa di più articolato. Le figure femminili sono certo chiuse tra balaustre, pareti, oggetti, ma sono allo stesso tempo delle regine da venerare, non toccare e quindi tutelare.
Ulteriori elementi vincolanti sono gli stessi oggetti che ne caratterizzano l’eleganza come gioielli, bustini, ombrellini e cappelli. Se la prigione è il luogo di chiusura per eccellenza, luogo deputato per scontare una pena, qual è dunque la colpa di queste donne? La risposta è complessa, ma sembra che il pittore aneli ad un ideale di perfezione che la realtà e il vissuto circostante forse non concedono; per questo motivo usa degli espedienti che valorizzano la presenza femminile alla ricerca dell’emblema assoluto.
Dietro l’elemento costrittivo si nasconde in verità una cura e un desiderio di impeccabilità. Del resto sarà lo stesso Campigli che alla domanda sul perché le sue donne fossero spesso prigioniere, risponderà che imprigionarle è un modo di amarle.