Pittori della vita moderna

Il saggio di Walter Guadagnini, tratto da catalogo ITALIA POP l’arte negli anni del boom –

“Amiamo il mondo. La tavola pitagorica che è il mondo. Le sensazioni dissociate attraverso cui si esprime, come numeri in tante caselle inconciliabili. Le disarmonie che lo rendono armonico. Il paesaggio melenso del Vesuvio, e il ringhio furbo e millantatore delle ‘seicento’ che cambiano marcia per affrontare la salita. Il neon sentimentale, i tisici riflettori del Colosseo e le dolci, arroganti lamiere lacerate e insanguinate dopo lo scontro. Amiamo Dracula e la sua vittima, il morto e il vivo, il demonio e il cherubino. I miracoli della TV o del cinemascope, oltre ogni idiozia, ci affascinano; e così lo spettacolo di un pubblico abbruttito dai mass media. Eppoi amiamo l’abbruttimento di per se stesso: il ‘bruto’ e l’immancabile angelo che da lui si risveglia. Sui tramonti di Roma vorremmo fissare col ‘vinavil’ le immagini, i frammenti che ci piacciono. Sovrapporre alla porta del Popolo sempre ingombra di grasse automobili le gambe di Marilina, uno stecco, un pappagallo impagliato, una bustina di caffè Hag”.

Aldo Mondino, Rencontres, 1968, acrilico su tela con interventi a matita e pennarello nero

È questo l’incipit, davvero straordinario per i tempi, del testo introduttivo a “Crack”, pubblicazione che presentava nel 1960 il lavoro di dieci giovani artisti attivi a Roma – di diversa estrazione e generazione – a cura del critico e poeta Cesare Vivaldi, arguto e sensibile interprete del proprio tempo artistico. Che nel 1963, in un testo intitolato Verso un realismo di massa, individua anche il modo di visione prediletto dagli artisti di area pop: “La pubblicità, la televisione, la segnaletica stradale, il fumetto puntano sempre più su effetti di shock ottenuti dalla violenta imposizione di un’immagine staccata, di un particolare isolato dal normale contesto relazionale, carico di valore simbolico […]. Ci aggiriamo, noi cittadini della metropoli moderna (e tutto il mondo, da Assisi a Cape Canaveral, al telstar nel più alto dei cieli, è un’unica metropoli) in un universo convenzionale, di relazioni obbligate, di oggetti e figure equidistanti, di stereotipi”. Gli artisti pop sono stati, in tutto il mondo, i veri peintres de la vie moderne della seconda metà del XX secolo, e le immagini che seguono ne sono una dimostrazione esemplare: non solo per i soggetti individuati, ma anche, e forse più, per il modo di affrontarli.

Antonio Fomez, Invito al consumo, 1964-1965
Mario Schifano, Tutta propaganda, 1963, smalto su cartone su tela

 

Il caso del rapporto con il linguaggio della pubblicità è a questo proposito emblematico: vi sono i prodotti della società dei consumi di massa, vi sono le icone nuove, vi sono gli oggetti che da cose sono divenuti merci, ci sono i sentori dei “persuasori occulti” di Vance Packard (“Tutta propaganda”, sentenzia Schifano su quest’onda, a proposito dei marchi che invadono giornali e schermi e strade) e degli “apocalittici e integrati” di Umberto Eco, nonché le “mitologie” e i “nuovi riti e nuovi miti” individuati lucidamente da Roland Barthes e da Gillo Dorfles (il quale tre anni dopo, nel 1968, pubblica Artificio e natura, testo non meno significativo, punto di riflessione centrale della ricerca artistica a partire da questi anni, come si nota testualmente nelle isole di Barni e di Cintoli, nelle opere tridimensionali di Gilardi e Marotta, e per via ironica anche nella pera monumentalizzata di Pozzati). Ma c’è soprattutto la volontà di restituire queste immagini in maniera differente, operando a seconda dei casi per via di sintesi, o per via di accumulazione, adottando una lingua puramente pittorica o elaborando tecniche differenti, concentrandosi sulle icone o sui linguaggi. In ogni caso, è uno sguardo mediato su figure a loro volta già mediate, secondo una pratica che accomuna gli artisti di area pop in ogni angolo del mondo, sin dalle origini.

Roberto Barni, Fiat 500, 1964, smalto su tela

Certo, vi è poi la specificità nazionale di quegli anni, che si individua facilmente proprio nelle icone: la fila di macchine dipinta da Barni, guidata da una Cinquecento, è un’immagine tipicamente italiana, come lo sono la Giulietta di Di Bello, i prodotti dipinti da Fomez, il telefono riportato sullo specchio da Pistoletto (non a caso si tratta del modello entrato in produzione nel 1962), il riferimento al mondo del calcio nella tela di Mambor e i progetti di Cintoli per il Piper, locale che incarna l’avvento della generazione dei teenagers come protagonisti della società contemporanea (per il momento in veste di consumatori delle nuove ritualità, nel giro di pochi anni come soggetti attivi di una richiesta di cambiamento dai contorni ben diversi). Perché la Pop Art è stata senza ombra di dubbio, anche in Italia, lo specchio del proprio tempo, talvolta critico, talvolta disimpegnato, spesso divertito e disincantato, ma mai indifferente.