Tratto dal catalogo della mostra “Luigi Magnani L’ultimo romantico” (Silvana editoriale)
Gian Paolo Minardi
“Magnani era musicista ? “ è la domanda che Thomas Mann rivolgeva ad Emilio Cecchi dopo aver espresso il suo apprezzamento per Le frontiere della musica, colpito soprattutto dal saggio, “Adrian Leverkühn l’inattuale” e dall’acutezza con cui veniva penetrata la figura del tragico protagonista del Doctor Faustus. Andando oltre la pur suggestiva, forse inquietante controfigura di Schoenberg quale artefice della “consulenza” di Adorno, contestatissima da Mann e fonte di una proverbiale querelle, Magnani con un’intuizione sorretta da sottilissime ricerche aveva individuato nell’utopica creazione di Adrian, Apocalipsis cum figuris, un calco insospettabile quale quello del’ultima Sinfonia di Caikovskij, la Patetica, cogliendo attraverso sorprendenti rispondenze strutturali l’essenza decadentistica che pervade il grande romanzo e più in generale l’aura che avvolge la visione del mondo del grande scrittore. Uno dei tanti indizi questa lettura di quanto la musica per il nostro rappresentasse un terreno aperto dove le peculiarità della lingua si diramavano lungo percorsi più complessi, innescando segrete corrispondenze, inattese consonanze. E’ appunto la nozione di frontiera – quella fissata nel titolo del primo volume di Luigi Magnani, apparso nel 1957- che può essere considerata come il fuoco centrale della sua personalità , frontiera non intesa come limite, come sbarramento ma come qualcosa di mobile, luogo aperto in cui in modo impalpabile ogni disciplina sembra affidare ad un’altra le proprie ragioni segrete, in un prolungamento ideale; lo sconfinamento quindi risultando non come tentazione eclettica né sintesi accomodante bensì come rovello, tensione verso un orizzonte più ampio da svelare; cogliendo quel senso di reciprocità tra poesia, musica, pittura che si intreccia attraverso i secoli fino a toccare quella decantazione in cui parole e suoni “ s’allument de reflets réciproques comme une virtuelle trainée de feux sur des pierreries…” .
Non a caso la presenza di Mallarmé entrava con singolare circolarità nel mondo segreto di Magnani, proprio per quel tendere, tramite la parola già virtualmente sonora, verso una condizione di assolutezza che, nel superamento di ogni funzionalità espressiva e psicologica, lascia intravedere quasi il “suo mistico compimento ideale nel silenzio”. Frontiera estrema in cui Magnani non vedeva l’annullamento delle ragioni più essenzialmente significative ma, al contrario, percepiva come un più segreto innervarsi di tali ragioni nella loro tensione esistenziale, esito supremo dell’esperienza beethoveniana, punto culminante nella sua ricchezza di stimoli e di interrogativi di una vicenda critica il cui significato può essere visto come un’inesausta variazione sul tema, tesa a saldare, nella necessità del dato storico, il rapporto tra la musica come fatto sonoro e il senso più recondito racchiuso entro l’idea formale. Beethoven come tema, appunto, presenza quella del musicista di Bonn che attraversa l’intera vicenda del nostro studioso, come possiamo ricomporre lungo l’articolazione cronologica; partendo da quei “Prolegomeni a Beethoven” contenuti in Le fontiere della musica che costituiscono un ingresso coinvolgente entro quel territorio che Magnani avrebbe non solo perlustrato ma indagato nella più segreta e misteriosa consistenza, attraverso lo studio dei “Quaderni di conversazione” che lo portavano a confrontarsi con una testimonianza estrema, sibillina anche dato il carattere di questi scritti, in negativo, rimanendo la voce di Beethoven un enigma da risolvere. Una vera e propria sfida che Magnani affrontò con coraggio e ansia al tempo stesso, con un esito, quello del volume apparso nel 1962, non poco sorprendente e illuminante pensando che per il lettore italiano si trattava di materia ancora oscura, oggetto genericamente rapportato alla drammatica ed eroica condizione della sordità. Per Magnani sarà una fonte indispensabile, “la visibile traccia, l’ustione si direbbe, dell’improvviso balenare dell’idea”, da cui alimentare quella ricerca inesausta che avrebbe trovato una sua più completa definizione nel progetto di un volume di cui ha lasciato traccia in un appunto dettato nel 1984, poco prima di lasciarci. Un documento rivelatore nello stesso dubbio riguardante il titolo: “Le due verità di Beethoven” o “ le due maschere di Beethoven “ ?
Si opterà per il primo nella pubblicazione postuma curata dalla Fondazione pur nella consapevolezza che entrambi riflettevano l’intendimento di andar oltre l’immagine consolidata, titanica, del Beethoven corrucciato per guardare più a fondo, fino a toccare quel nodo cruciale che è il principio di opposizione, centro di quel pensiero kantiano che affiora dalle pagine dei Quaderni e che agirà quale fibra essenziale del processo compositivo. Questa, pensava Magnani, era la molla che poneva Beethoven su un piano diverso, più assoluto, rispetto al pensiero del classicismo viennese, segnando un approdo che ha dato filo da torcere a chi ha tentato di prendersi carico di una simile eredità. Vero e proprio rovello per il nostro studioso nel cercare di “conoscere” Beethoven nelle pieghe più riposte, nelle tracce lasciate, con prementi segni di lapis, sulle pagine di opere di autori di cui coltivava un’appassionata frequentazione, Omero, Shakespeare, Goethe. Sono riscontri sorprendenti che contribuiscono a sedimentare un’immagine in maniera suggestiva e problematica, non un corredo marginale ma una scorciatoia per giungere al centro del pensiero creativo. Sono gli esiti rivelatori che Magnani ci ha trasmesso nei due lavori, apparsi rispettivamente nel 1976 e nel 1984, Goethe, Beethoven e il demonico e Beethoven lettore di Omero, dove Beethoven si esalta di fronte alla nuova concezione rivoluzionaria dell’ellenismo, chiavi anch’esse necessarie per penetrare quell’universo la cui immensità, sgomentante, derivava da un’esperienza esistenziale drammaticamente solitaria. Un segnale della strenua tensione che animava Magnani nella ricerca anche più occasionale delle ragioni che si intrecciavano in tale universo lo si poteva cogliere nel pensiero, forse illusorio,che Beethoven avesse messo le mani sulla tastiera di quel fortepiano, un Johann Fritz dei primi dell’ottocento acquistato dalla collezione Balbi-Odescalchi, chissà, forse proveniente dal palazzo viennese dove abitava Anna Luisa Barbara Keglevich, moglie del conte Innocenzo Odescalchi e allieva di Beethoven che le dedicò la Sonata op.7 e il primo Concerto per pianoforte e orchestra. Lo strumento, dopo il restauro di un esperto tecnico viennese voluto dalla Fondazione, ritroverà il suo suono originale in un concerto di Joerg Demus con un programma interamente beethoveniano.
La tensione del pensiero kantiano che costituisce il filo segreto di cui Magnani nutre la sua inesauribile frequentazione beethoveniana ritrova una sua necessità anche lungo un altro fervido percorso che è andato stagliandosi nella sua esperienza, quello proustiano, terreno dal quale ha preso vita La musica in Proust (Einaudi 1978) in cui è ripreso un precedente saggio ( Ricciardi 1967) , La musica, il tempo, l’eterno nella <Recherche> di Proust, titolo chelascia affiorare l’originalità dell’indagine, per l’aura metafisica che emana dalla musica, “ pura espressione di un ordine, di un’armonia universale che assorbe e annulla in sé ogni elemento particolare”. Come nella analisi dell’opera di Leverkhün anche nella segreta esplorazione del mondo proustiano le antenne di Magnani si sono mosse con l’acribia del ricercatore giungendo a identificare quella “Sonata di Vinteuil” la cui petite phrase aveva generato una gamma di supposizioni, dalla Sonate di Franck a quella di Fauré, addirittura l’Incantesimo del Venerdì Santo, che Magnani smentì trovando un riscontro nella Sonate di Saint-Saëns, ipotesi confermata dalla confidenza di Reynhaldo Hahn, l’amico intimo di Proust, che ricordava come dovesse ripetutamente eseguire al pianoforte per compiacere a Proust al termine dei loro incontri quello spunto melodico della Sonata di Saint-Saëns.
Per tornare alla domanda di Thomas Mann, se Magnani fosse musicista la risposta affermativa si stempera nel più ampio interrogativo: “ chi fosse Magnani ? Storico dell’arte, musicista, musicofilo, scrittore, critico ? “ In effetti era un po’ tutte queste cose insieme, col risultato di una complessità di visione che se da un lato smussava le rigidezze specialistiche dall’altro apriva orizzonti più affascinanti. Varietà di definizione che trovava radici nella ricchezza della formazione, lo studio del latino e del greco con il cardinal Mercati, la storia dell’arte con Toesca, gli studi musicali con Casella. Il rapporto con Casella fu importante per Magnani, come per i tanti giovani musicisti che lo frequentavano attingendo dalla sua esperienza, straordinaria per l’ampiezza di visione che era andata accrescendosi nei lunghi anni dalla formazione in Francia dove era venuto a contatto, dividendone anche una proficua amicizia, con i più significativi testimoni delle profonde trasformazioni, estetiche e linguistiche, da cui nasceva il nuovo secolo, da Debussy, a Ravel, a Stravinsky ma pure a Mahler . Un vero e proprio apostolato quello esercitato da Casella, al di là della propria fede compositiva di segno chiaramente nazionalistico. In anni di autarchia culturale Casella rimaneva un tramite delle esperienze che andavano consumandosi in Europa, come non poteva non essere per chi quelle esperienze aveva vissuto sul nascere. Nonostante le barriere del regime nel cenacolo caselliano filtravano le partiture di Schoenberg e di Berg. In tal modo Magnani, oltre a partecipare alle problematiche compositive che l’insegnamento di Casella rendeva così vive e attuali, divideva con altri compagni di studio, tra cui una particolare evidenza assume le presenza di Roman Vlad, quell’interesse per la più avanzata avanguardia europea, come ben testimonianza l’importante saggio su Hindemith pubblicato su Le Arti , la rivista voluta da Giuseppe Bottai che vedeva impegnati i nomi più rilevanti della cultura. Anche per Magnani come per Casella l’attività creativa si estendeva sul versante saggistico e critico, segnale quest’ultimo di un coinvolgimento nel clima culturale di quegli anni e di una partecipazione viva a quanto i musicisti andavano proponendo; lo si legge nelle cronache che il giovane Magnani andava stilando seguendo le manifestazioni musicali romane e quelle delle Estati Musicali senesi, merito anche queste di Casella, come riconosce Magnani in una cronaca dell’ottobre 1941, una testimonianza di gratitudine che sintetizza il debito verso di lui: “ sempre maestro, dopo aver iniziato tutta una generazioni di giovani verso una nuova coscienza musicale moderna, sente di doverla inoltre consapevole dell’antica e gloriosa tradizione musicale italiana che, anche per suo merito, non appare più circoscritta ai fasti ed alle miserie del melodramma ottocentesco”.
Ma pur gravitante attorno all’orbita caselliana l’attenzione di Magnani non era meno sensibile a quando andava movendosi oltre i nostri confini: oltre alla poetica di Hindemith non mancò l’interesse per Schoenberg di cui nel 1953 ascolterà a Donaueschingen le Variazioni op.31, non sottraendosi persino ad un’esplorazione entro il magma della “musica concreta” cui dedicò un saggio apparso nel 1954 su Paragone, la rivista di Longhi sulla quale nello stesso anno era stato anche pubblicato un altro saggio, Storia segreta della tetralogia.
Le testimonianze di Magnani compositore si concentrano nel periodo tra gli anni Trenta e Quaranta, una produzione piuttosto ristretta in cui opere di maggior respiro come Emmaus, oratorio per soli, coro e orchestra, la Sinfonia corale, Inno alla notte su testo i Michelangelo e Pavana e Passacaglia per orchestra, si alternano a pagine di più raccolte proporzioni quali i Tre Cori della Passione per voci sole, i Canti di Michelangelo – due stanze di Canzone per voce e pianoforte, la Barcarola, lirica per canto e pianoforte su poesia di Paola della Pergola. Affiora da queste pagine un carattere riflessivo che si può cogliere in una scrittura la cui nitidezza sembra filtrare più segreti trasalimenti, soprattutto attraverso un’armonia che se appare talvolta attraversata dai turbamenti di un cromatismo penetrante non di meno trova momenti di più luminosa pacificazione nella discrezione di quel modalismo che in quegli anni attraversava come tratto liberatorio dalle obbligazioni del vincolo tonale il paesaggio di molta musica europea, da Magnani frequentata, nello stesso spirito con cui partecipava con immedesimazione alle suggestioni del mondo proustiano.
Ecco allora che da quei pentagrammi tracciati come esercizio di una sentita adesione ad un ideale espressivo possiamo avvertire la fugace presenza di quel fantasma raveliano che del resto era stato profondamente condiviso dal suo maestro, Casella, appunto; una lezione che Magnani mostra di aver assimilato nella sua “moralità” che non nei tratti più emergenti, meno toccato da quella solare chiarezza, casoratiana, che è il contrassegno più spiccato del neoclassicismo caselliano quanto piuttosto attratto dal lavoro più sotterraneo che assicura una più segreta unità; da quel contrappunto, in particolare, che sente più congeniale ad una tensione spirituale ricreata attraverso la storia, una “romanità che si prolungava grazie al respiro della lezione palestriniana – attinta da Magnani alla scuola di Monsignor Casimiri – fino alle più giovani generazioni. Un’istanza di espressività che ritroviamo pure in queste pagine di Magnani nella mobilità ritmica con cui piega il discorso musicale affinché il testo possa liberare tutta la sua forza: il continuo mutamento del passo ritmico nelle Due stanze di Canzone ( significativamente dedicate a Goffredo Petrassi ) che rende pulsanti le parole di Michelangelo è un esempio di sicura evidenza.
L’impegno compositivo di Magnani ha trovato riscontri in diverse esecuzioni pubbliche. Sarà lo stesso Raffaele Casimiri a realizzare la prima esecuzione dei Tre Cori della Passione nell’aprile del 1939 alla Filarmonica Romana. Due anni prima, nella Beethovensaal avverrà la prima esecuzione dei Canti di Michelangelo. Più ampio rilievo avrà il Preludio di Emmaus, proposto da Carlo Zecchi alla Scala nel 1943, ripreso poi a Firenze, alla Fenice di Venezia, alla RAI di Torino quindi nuovamente a Milano, alla Scala, nel 1947. Lo stesso Zecchi includerà nei suoi programmi la Pavana , a Milano per i “Pomeriggi Musicali” nel1952, a Firenze nel 1953 e, ancora a Firenze, nel 1959. per riproporla poi a Vienna e a Dublino.
Un’attenzione quella di Carlo Zecchi, il grande pianista passato poi alla direzione d’orchestra, che aveva radici profonde nella lunga amicizia che lo legava a Magnani, fin dall’adolescenza; grazie anche alla musica. Zecchi andava nella villa romana dove trascorreva ore alla tastiera, sottoponendosi a quell’implacabile tirocinio tecnico che – ricordava Magnani – il giovane futuro virtuoso, destinato ai successi di cui avrebbe brillato sulle scene internazionali, mal accettava, cercando di compensarne l’aridità di quelle tornate di scale e arpeggi con il conforto dei classici, che teneva sul leggio, guidato dagli insegnamenti che gli dava lo stesso Magnani; a sua volta debitore verso l’amico di preziosi consigli pianistici. Scambio affettuoso che consentì a Magnani di avere con lo strumento un rapporto confidenziale indispensabile, un tramite sicuro per le sue investigazioni lungo le partiture. Un rapporto privato riguardo al quale amava rievocare, con quella sottile ironia che talora screziava il suo discorrere, un episodio lontano: il ricordo di una mattina estiva mentre nella quiete della sua casa romana eseguiva la Sonata op.110 di Beethoven fu colpito dalla parole, giunte a lui dalle finestre aperte, di un giardiniere ferrarese che stava curando i fiori : “ lul’sonna e mi sud “, lui suona e io sudo, uno scarto con la realtà che velava con un vago senso di colpa la concentrazione con cui Magnani viveva il suo rapporto con la musica. Un impegno creativo, essenzialmente, come testimoniano le composizioni di quegli anni che si muovono lungo quella direzione dominante testimoniata dalle opere di Casella come in quelle dei più giovani Petrassi e Dallapiccola, segnata dagli intendimenti di un rinnovamento del linguaggio musicale che passasse attraverso il recupero delle nostre più remote tradizioni strumentali e corali, ben conosciuta da Magnani grazie allo studio, come si è ricordato, con Casimiri, direttore della Scuola Superiore di Musica Sacra. Un passato che riaffiora attraverso il recupero di una vocalità che non ha nulla in comune con quella della teatralità ottocentesca ma che sembra ritrovare nuovo nervo nel madrigale drammatico di tradizione monteverdiana, Quel ritorno alla coralità che ritroviamo nell’ultimo Casella, nella Missa pro pace, in Petrassi soprattutto il cui neomadrigalismo rifulge nel Salmo IX, nel Magnificat, nel drammatico Coro di morti, opere che Magnani conobbe e con le quali dovette trovarsi in sintonia.
Lo leggiamo in una recensione apparsa su Le Arti nel luglio del 1941 dove esprime la sua ammirazione per la Sinfonia op.63 di Casella: “ La bravura e la perfezione di mestiere con cui l’opera è condotta acquistano pieno significato nella concezione che dell’arte ha il suo autore, il quale all’effusione romantica e alla preziosità impressionista oppone l’affermazione di valori costruttivi, la purezza formale, il dinamismo ritmico”. Il passaggio alla “ generazione di mezzo” trova rilievo nell’apprezzamento per Dallapiccola – “ ha il dono dell’invenzione. La costante rinuncia a quanto con corrisponda a quelle presenti necessità acquista un particolare valore morale che non si può non riconoscere ed apprezzare” – ma è soprattutto il Magnificat di Petrassi a colpirlo: “ Si resta infatti soggiogati di fronte a quell’irrompere di masse sonore che un’insita energia ritmica suscita e muove …il purissimo slancio iniziale, i dominati tumulti sonori, l’efficacia ritmica, l’ardita condotta delle parti corali e particolarmente la potenza drammatica raggiunta verso la fine con quel graduato dissolversi spegnersi del canto, rivelano dovizia di mezzi espressivi, di fantasia, padronanza di tecnica e, mediante l’assimilazione del più moderno linguaggio, un alto grado di civiltà musicale”. Ma il terreno del sacro Magnani lo sente come luogo da cui muovere per una riflessione più profonda, attraverso percorsi più penetranti rispetto alla sontuosa monumentalità romana di un Petrassi quali si potevano scorgere nella fonte sublime del canto gregoriano; una suggestione che in quegli stessi anni pervase la nostra cultura musicale diventando moda, compiacimento estetizzante: non in Pizzetti per il quale la scoperta del gregoriano sarà stimolo per una nuova rivelazione drammatica; e neppure per Magnani che il gregoriano scoprì attraverso la frequentazione di quel luogo deputato che è l’Abbazia di Solesmes, sorgente per lui di nuove intuizioni che andavano diramandosi entro quel suo ricco universo culturale illuminando le zone più riposte del pensiero, attraversando insomma altre “frontiere”.
Una lezione quella di Solesmes che Magnani coltivò fino agli anni avanzati così da arrivare a progettare la creazione di una “Schola cantorum” gregoriana operante nella Cappella della villa di Mamiano quale strumento attivo per tener viva una tradizione che la Chiesa stava oscurando.
Per una considerazione più ampia di quanto la musica occupasse l’esistenza di Magnani un interesse autentico è offerto dalla corrispondenza con Cesare Brandi, testimonianza di un’amicizia profonda, radicata nello stesso intrecciarsi dei gusti e delle vocazioni artistiche, partecipi di quel “ gruppetto concorde, letterato e musicale” che Brandi in una lettera dell’11 ottobre 1940 evocava all’amico. In questa “concordia” un ruolo non marginale spettava alla musica che anche per Brandi, per via della madre, era di casa. Concordia discors verrebbe da pensare leggendo le osservazione del critico d’arte che in una lettera del 23 maggio 1943 inviterà l’amico a “ uscire dal cerchio stregato della musica para-sacra” per cimentarsi con il balletto, genere cui Brandi si sentiva più vicino, anche per le implicazioni di segno figurativo. E’ un percorso epistolare in cui il velo della musica lascia trasparire la diversità dei due amici; al passo più introverso di Magnani si contrappone quello più inquieto, con scatti di capricciosa umoralità di Brandi che più scopertamente mostra la propria contrarietà : “ Anche Petrassi vale pochissimo “ ( 26 ottobre 1950) oppure “ per conto mio non voglio sentire né Casella né Perosi” ( 15 luglio 1972 ). Un singolare colloquio a due voci pur con timbro diverso, dove la consonanze sembrano più spesso sovrapporsi alle dissonanze, osservando la circolarità degli appuntamenti musicali che scandisce questo loro interesse:le Settimane Musicali di Siena, la Sagra Musicale Umbra, il Festival di Musica Contemporanea di Venezia, La Scala, l’Opera di Roma, la Filarmonica romana come a ricomporre un vario scenario lungo il quale passano alcuni avvenimenti, oggi consolidati nella storia del Novecento, allora attesi dai due amici con dichiarato fervore: il Coro di morti di Petrassi, la Messa di Stravinsky, quindi dello stesso The Rake’sprogress, e ancora Moses und Aron di Schoenberg, interessi paralleli che si prolungano attraverso l’esercizio critico da parte di Magnani dapprima su Le Arti quindi sulla rivista di Brandi L’Immagine. Seguendo questo itinerario condiviso affiorano le predilezioni di Brandi, per le riscoperte del nostro settecento strumentale, Scarlatti e Vivaldi in particolare, dovuto all’impegno pionieristico di Casella ma ancor più quelle per il teatro, le opere di Rossini soprattutto che sembrano rinnovare in lui lo stendhaliano “bello ideale”, filo conduttore anche della sua visione critica, fino alla sua lettura di Morandi come pure a quella di Burri, prolungamento di una classicità che sembra escludere ogni intromissione psicologica. Sarà questo un suggello insuperabile per il grande pittore bolognese che nel ratificare con rispetto l’interpretazione brandiana respingerà le proiezioni più sollecitanti e lungimiranti proposte da Arcangeli, il “flebilmente lamentoso Arcangeli” commenterà Brandi con sottile cinismo in una lettera a Magnani ( 7 gennaio 1966 ). Ma forse un indizio di una più sotterranea distanza che si insinua nella comune vocazione musicale dei due si coglie in una lettera del 13 dicembre 1970 in cui Brandi, accennando al saggio inviatogli da Magnani su l’Es muss sein, la sibillina annotazione di Beethoven nella partitura dell’ultimo movimento del Quartetto op.135 ( “ la decisione presa con difficoltà: deve essere, si lo deve”), di fronte all’interpretazione proposta che vede in quelle parole l’essenza “ dell’elemento tragico del suo carattere, il segno della sua elezione eroica, il grado del suo alto raggiungimento umano “, scrive : “ne dai un’esegesi ricchissima, documentatissima, ma forse, nella conclusione, un po’ troppo spiritualista. La musica, lo dici tu stesso, non coadiuva in un’esegesi così impegnativa: per lo meno doveva esserci una marcia funebre”.
Pur con queste sottese incrinature la comune passione musicale che ha rinsaldato una lunga amicizia ci accompagna impalpabilmente attraverso un’altra frontiera, quella della pittura: il primo incontro, quello con Morandi, artista dalla cui opera la musica sembra assente, se non per quella natura morta con strumenti musicali nata dall’insistenza, un po’ ingenua di Magnani che alla fine, anziché i preziosi strumenti barocchi procurati come modello al pittore, si trovò di fronte, dopo una lunga attesa, alla rappresentazione di una chitarrina incrociata ad una di quelle trombette di latta che si vendevano nelle fiere di paese, come in effetti fu per confessione dello stesso Morandi che quella trombetta aveva acquistato alla fiera di Natale della Montagnola. La trasfigurazione l’ha descritta sensibilmente Brandi: “ così, fatti i voti di umiltà e di castità, gli oggetti estranei potevano varcare la soglia della pittura e disporsi in modo araldico e paradigmatico, per cui si manifestano in una specie di controluce che li scarnisce nella loro materia, conservandosi nell’essenza”. In altre parole la pittura che si fa musica. Ed era lungo tale orizzonte che Magnani riviveva l’intensa vicenda di Morandi, una specie sorprendente “variazione continua”, come quella intrecciata da Beethoven con le Diabelli e prima ancora da Bach con le Variazioni Goldberg.
Sentiva come dalla povertà di quegli oggetti – proprio come dall’innocuo valzer dell’editore da cui Beethoven genera il grandioso monumento delle Diabelli – “ emanasse una musica priva del tumulto delle sonorità, quale Mallarmé sognava potesse aleggiare in virtù della divine transposition , nella poesia: quella musica silenziosa in cui la musica, spento il suono reale, rimembrata nel silenzio, trova un suo compimento supremo.”
Motivo questo della variazione che trovava conferma negli stessi intendimento del pittore, quando, mostrando a Magnani i pochi oggetti sapientemente disposti sul tavolo o indicando le scarnite linee delle colline di Grizzana confessava: “Vede, se avessi una seconda vita non potrei esaurire lo svolgimento di questo tema” per dire come bastasse un minimo scorcio a mutarne la luce, svelare tremiti segreti, proprio come avviene nell’ultima Sonata di Beethoven quando dalla tenera Arietta il musicista va traendo immagini sempre più decantate attraverso le cinque variazioni che seguono, in cui il ritmo si frammenta in rapporti sempre più sottili, il timbro, con le due mani che si allargano alle zone estreme della tastiera, esplorato nelle minime screziature fino a sfaldarsi in una luminosità entro cui il disegno melodico riaffiora come una veronica: come negli ultimi, rarefatti acquarelli.
Per dire come la “lettura musicale” che Magnani faceva dell’opera di Morandi fosse filtrata attraverso la sensibilità di alcune lenti predilette, Goethe, Mallarmé, Pascal – i cui “Pensieri” insieme ai “Canti” di Leopardi erano sempre sul comodino del pittore – ad illuminare particolari correspondences. Come l’idea goethiana di un ordine inteso quale tramite per penetrare i segreti della natura, idea che si prolungava nella convinzione cezanniana cara al pittore nel considerare la crucialità dei valori formali, a loro volta fonte di immagini poetiche. Proprio come un musico, commentava Magnani, che si fosse valso “ di note preesistenti, già date, ma affidandole al timbro originale di un altro strumento, si da imprimere loro suggestioni ed emozioni del tutto nuove”. Così la nozione del colore vissuta dal pittore con quella autonomia, rispetto al dato naturalistico, che Magnani poteva rapportare al modo con cui Debussy concepiva l’accordo, liberato dalla convenzionale funzionalità armonica . E pure goethiana la complementarietà dei colori quale regolatrice del rapporto luce e ombra, non dissimile, suggeriva Magnani, a quello tra modo maggiore e modo minore che dominano lo spazio della musica tonale. La tonalità, appunto, quale dimensione musicale, nel senso di un ordine più segreto e pur tangibile che in certo qual modo allontana l’osservazione da un dato più direttamente riconoscibile, per guidarla verso orizzonti più liberi.
A volte la provocazione musicale del quadro si proponeva in maniera più diretta, come quella stimolata dalla Natura morta del 42 con le lunghe bottiglie e quel “ tono assorto della pallida architettura un progressione solenne e profonda” (Arcangeli) che pareva prolungare per Magnani un senso di drammaticità così da evocare la scena del finale primo del Don Giovanni, quel “trio delle maschere” che preludeva alla fatidica resa dei conti.
Il richiamo mozartiano trapassa dall’universo morandiano nel ricordo di quando Magnani mi presentò in anteprima – un vezzo privatissimo questo di Magnani nel far partecipi gli amici delle sue nuove acquisizioni, quasi con carbonara complicità – il grande quadro di Goya, appena giunto a Mamiano: erano Le Nozze di Figaro a suggerire il gioco delle corrispondenze, partendo dalla quasi contemporaneità dei due capolavori per allargarsi a più sottili, catturanti affinità, quella “leggerezza” delle velature che pareva riflettere nella sua mobilità l’imprevedibilità armonica mozartiana, sempre giocata sulla sorpresa, tramite di quella vocazione teatrale che pure sembra affiorare dai personaggi che attorniano l’Infante, campionario oltremodo declinato nella individuazione fisiognomica di quella stessa umanità di cui Mozart ha rivelato tratti e caratteri inconfondibili.
Una presenza dunque impalpabile quella della musica nella vita di Magnani, che si insinuava sottilmente nelle pieghe di una tensione riflessiva ignorando le “frontiere” o piuttosto rivelandone la permeabilità con un allargamento sorprendente dello sguardo. Ma come “suonava” poi la musica in casa Magnani? A parte la testimonianza muta di una ricca collezione discografica che accompagnava i momenti più privati affiorano, per chi come il sottoscritto ha avuto occasione di frequentare la villa romana di Via Nibby come la residenza di Mamiano, tanti ricordi che hanno lasciato una traccia sensibile. “Concerti privati” come li ha definiti in un suo come sempre sgusciante scritto Alberto Savinio, anch’egli presente a quegli incontri, che erano spesso offerte di primizie, sia per la rarità delle pagine proposte che per la qualità degli interpreti; com’era nel caso “recensito” da Savinio che vedeva il giovane Roman Vlad eseguire musiche di Berg, Busoni, Stravinsky, Casella. Incontri che avrebbero avuto un seguito a Mamiano, alla presenza di un pubblico che Magnani sapientemente dosava, proprio in rapporto alla specificità dell’offerta: poteva essere il pianismo avvolgente di Nikita Magaloff , quello nitido di Carlo Zecchi o quello poetico e temperamentoso di Magda Tagliaferro ad incantare ascoltatori sensibili tra cui non era raro incontrare Montale o Bacchelli; per non dire del Quartetto Italiano con il cui leader, il reggiano Paolo Borciani, Magnani aveva diviso fin dagli anni giovanili una sicura amicizia; esecuzioni che sembravano prolungare attraverso la trama sonora dei quattro archi le tensioni e le rivelazioni che il “padrone di casa” andava esplorando nella lettura dei “Quaderni”. Più private altre occasioni, come quella in cui Carlo Pestalozza offrì l’esecuzione integrale del Ludus Tonalis di Hindemith o quella, indimenticabile, in cui Elisabeth Schwarzkopf esegui una raccolta di Lieder di Wolf quale dono augurale per la madre di Magnani che indisposta seguiva dall’alto della sua stanza la mirabile collana. Vi erano poi serate “ di studio”, potremmo definirle, in cui la sequenza degli ascolti discografici veniva guidata dallo stesso Magnani; erano gli appuntamenti con i Quartetti di Beethoven, delibati ognuno nella loro segreta eloquenza così come occasione ancor più riservata, quasi nello spirito di un setta, fu la serie riservata a Mahler, autore che allora, agli inizi degli anni sessanta, viveva ancora nella penombra, del tutto ignorato dalle correnti programmazioni delle nostre orchestre: era l’appuntamento serale del mercoledì, dove nel piccolo studio, di fronte al camino, Magnani divideva con pochissimi amici e con la presenza della madre l’esplorazione – ogni sera una delle monumentali Sinfonie – di quel mondo tanto misterioso quanto avvincente. Non diceva Mahler “ il mio tempo verrà” ?