Quando Lucio Fontana nel 1961 va a New York rimane, come tutti, impressionato da quella città.
“New York” scrive Lucio Fontana, “è più bella di Venezia! I grattacieli di vetro paiono delle grandi cascate d’acqua, che precipitano dal cielo. Di notte è una grande collana di rubini, zaffiri, smeraldi […] New York è una città fatta di colossi di cristallo sui quali il sole batte provocando torrenti di luce”. Dopo la visita al grattacielo Seagram di Mies van de Rohe, Fontana annota:
“…pare che contenga il Sole”.
La sensazione potente e intensa provata dall’artista è inizialmente fissata su dipinti eseguiti sul luogo e poi, l’anno successivo, su lastre metalliche di rame o latta tagliate lungo l’asse verticale fissare l’impressione dello skyline urbano di Manhattan.
Dobbiamo pensare che erano gli anni ‘60 e non era semplice come oggi vedere città di quel genere.
Concetto spaziale. New York 10 è un’opera monumentale che si presenta come un trittico, è infatti composta da tre pannelli in rame che presentano numerosi tagli e graffi.
Un’interpretazione visionaria della metropoli americana che ne suggerisce la luminosità fluida e onnipresente, le superfici riflettenti dei palazzi d’acciaio e di cristallo, ma anche la natura “tecnologica” e industriale resa dalla stessa scelta del materiale, non tela o legno o ceramica, tutte cose antiche e legate alla tradizione europea della pittura e della scultura, ma scintillanti lastre metalliche a uso industriale, affatto desuete nel mondo delle arti belle.
Fontana era un grande sperimentatore, anche nei materiali. Il rame riflette la luce e permette di includere lo spettatore nell’opera. Inoltre i riflessi luminosi sul pavimento riproducono un effetto materico e, come increspature, ricordano l’acqua che circonda New York.