Stefano Roffi

Nella Bologna dei primi anni quaranta, le lezioni universitarie di Roberto Longhi corroborano in Pasolini la passione per la grande pittura italiana, Giotto, Masaccio, Piero della Francesca, Caravaggio. Le opere d’arte della città, in particolare il concitato e immaginoso realismo degli affreschi trecenteschi di Vitale da Bologna in Sant’Apollonia di Mezzaratta, allora ancora in situ, l’irriverente e terrificante Inferno tardo-gotico di Giovanni da Modena in San Petronio, e il Compianto di Niccolò dell’Arca, con la sua pietrificazione eterna del grido di dolore dell’umanità, costituiranno alcune delle fonti creative del cinema pasoliniano nella sua dialettica di fusione antigerarchica del destino umano con la sofferenza divina che risolve una parabola inesorabilmente tragica.

Scene sacre contaminate da dettagli di vivace umanità e vicende terrene condotte sul crinale di un quotidiano Calvario si ritrovano costantemente nella costruzione operata dal poeta-regista di un personale Vangelo contemporaneo, solo apparentemente fuori dall’ortodossia.

Fotogramma dal film di Pier Paolo Pasolini Il Decameron, 1971. Pasolini, qui in veste di attore, rende omaggio a Giotto e a Velazquez
Fotogramma dal film di Pier Paolo Pasolini Il Decameron, 1971. Pasolini, qui in veste di attore, rende omaggio a Giotto e a Velazquez

Pasolini quinto evangelista? indubbiamente uomo dall’inclinazione profetica, affida a una narrazione dagli accenti ieratici la denuncia della perdizione dell’uomo in deriva di ossequio acritico verso il consumismo-nuova fede, monoteismo globale che si andava affermando su ogni forma di virtuosa ingenuità primigenia. Nel volume di poesie Le ceneri di Gramsci (1951-56), in un itinerario storico-antropologico, idealizza la statua di Ilaria del Carretto, scolpita da Jacopo della Quercia («Jacopo con Ilaria scolpì l’Italia / perduta nella morte quando / la sua età fu più pura e necessaria»), come simbolo romantico e decadente di un’Italia dall’incontaminata ed evocativa bellezza; emerge l’amore per un mondo quasi animalesco di crudo verismo borgataro, che ammira e descrive tentando una forma di immedesimazione poetica con la vitalità gioiosa quanto drammatica degli ultimi depositari di un’innocenza già perduta.

Pasolini, pittore egli stesso per tutta la vita, indicava sempre i modelli pittorici come riferimenti per il proprio linguaggio cinematografico, più per stile che per iconografia, rivendicando le immagini sacre di Masaccio come fonti per il bianco/nero romanico di Accattone e di Mamma Roma, dove inizia a costruire inquadrature come scene dipinte, senza tuttavia farne citazioni semplicemente estetiche ma esprimendo efficacemente contenuti molto complessi, resi così universalmente comprensibili. L’inquadratura immaginata come un quadro spiega la preferenza di Pasolini per il campo fisso: “come se io in un quadro – dove, appunto, le figure non possono essere che ferme – girassi lo sguardo per vedere meglio i particolari”; quindi la pittura risulta anche un mezzo congeniale per un linguaggio filmico di impronta “astorica”.

Particolarmente nel suo primo film Accattone (1961) emerge l’influenza di Roberto Longhi e delle lezioni su Caravaggio: spunti provengono poi da Stomer, da Borgianni, e, appunto, da Masaccio. Frontalità ossessiva delle inquadrature, presa dalla grande ritrattistica pittorica e plastica del Quattrocento, fotografia in bianco/nero “sporca” e contrastata, sacralità data dalla musica (di Bach) a commentare sequenze di degrado, volti e corpi antigraziosi, desolazione di periferia: Accattone possiede già i connotati neo-espressionistici di uno stile che trasgredisce violentemente i codici formali istituzionalizzati, come, analogamente, la sua poetica, ispirata all’ideologia marxista, privilegia soggetti degli strati sociali disprezzati, a provocare il conformismo delle classi dominanti.

Sulla scelta del protagonista di Mamma Roma (1962), spiega Pasolini:  “Ho visto Ettore Garofalo mentre stava lavorando come cameriere in un ristorante dove una sera ero andato a mangiare, […], esattamente come l’ho rappresentato nel film, con un vassoio di frutta sulle mani come la figura di un quadro di Caravaggio”. Il banchetto di nozze all’inizio del film, che vede la protagonista Anna Magnani ex prostituta col sogno di promuovere il figlio a una condizione piccolo borghese, è un palese richiamo a molte rappresentazioni rinascimentali dell’Ultima cena, in particolare del Ghirlandaio; la drammatica immagine finale del ragazzo, sconvolto dalla rivelazione del “mestiere” della madre, morente e legato nell’infermeria della prigione, riprende il Cristo morto (1483) del Mantegna, in una evidente sovrapposizione del sacrificio di Cristo con le sofferenze dei miseri.

Fotogramma dal cortometraggio La ricotta di Pier Paolo Pasolini, parte del film RoGoPaG, 1963
Rosso Fiorentino, Deposizione, 1521, olio su tavola. Volterra, Pinacoteca Civica

Per Mamma Roma e, anni dopo, Medea sceglie come protagoniste due celebrità mondiali del mondo dello spettacolo, Anna Magnani e Maria Callas, la prima italiana premio Oscar e la divina dell’opera lirica, a interpretare madri che, in modi diversi, provocano la morte dei figli. La prima a causa del non accettare la condizione sottoproletaria ma aspirando, per il figlio, a un riscatto nello status piccolo-borghese, tanto odiato da Pasolini; la seconda, rosa dalla gelosia, pure questo un sentimento tipicamente piccolo-borghese pur in un traslato storico, uccide i figli avuti dal fedifrago Giasone. La morte dei giovani è provocata dal rifiuto di uno stato di purezza per aderire alla corruzione data dalle misere convenzioni sociali. Nella costruzione dell’immagine scenica del soprano quale Medea, Pasolini, nel 1969, alle prese con la sacralità di un mito contemporaneo, elaborerà di proprio pugno una serie di ritratti utili per le riprese, facendo ricorso a succhi vivi, quali acini d’uva, fiori, vino, cera, quasi un’offerta rituale dalla terra a una dea. Entro scenari che evocano dipinti del primo Rinascimento, la figura della Callas quale Medea evoca Massimo Campigli, in particolare i disegni per Il Milione, le sue gran sacerdotesse tartare sontuosamente abbigliate di paramenti e monili.

Ne La ricotta, episodio da RoGoPaG (1963), Pasolini attraverso i dettami di Orson Welles, nel ruolo di un regista suo alter-ego che dirige un film sulla Passione di Cristo con comparse di abbruttita presenza, ricostruisce a tableaux vivant, in sequenze gemelle, due opere di due manieristi toscani: la Deposizione di Cristo di Rosso Fiorentino (1521) e la Deposizione del Pontormo (1526-1528), più cinematografiche e movimentate del film, entrambe dal luminismo manicheo, coi colori, di primaria purezza, che contendono lo spazio alle ombre, staccandosi, come presagi di Paradiso, dallo squallore in bianco/nero della triste vicenda del film. Anche qui Pasolini racconta le vite tragiche dei reietti del sottoproletariato rivelando, in chiave di ossimoro, il carattere religioso insito nei loro travagli ed elevandoli a una sacralità che trova il corrispettivo formale nella composizione delle immagini, evocativa della grande pittura sacra.

Ne Il Vangelo secondo Matteo (1963-64) Pasolini riporta l’essenzialità senza tempo, aspra e popolare delle parole del Vangelo, con silenzi plastici dagli esiti espressionisti che pongono la narrazione fuori dalla storia e ambientando il film nello scabro contesto dei sassi materani adatto per saldare le citazioni manieriste con l’arcaicità del divino. Pasolini riversa se stesso, anche nella vocazione al martirio (vaticinato rispecchiando sua madre nella Vergine), in un Cristo deieraticizzato, uomo e profeta di scandalose novità; il volto umano e distaccato di Enrique Irazoqui è lo stesso dei Cristi di El Greco, mentre nei molteplici primi piani immobili si nota un riferimento ai ritratti di trequarti del tardo Quattrocento. La scena del battesimo di Cristo, le figure dei farisei e degli scribi, sono riprese da Piero della Francesca, Maria incinta, ripresa frontalmente col volto dimesso e le palpebre semichiuse, appare come nella Madonna del Parto di Piero. La via crucis ripete, in movimento, dettagli de La storia della croce sempre di Piero. La concatenazione di molte scene rimanda ai cicli affrescati trecenteschi, tra cui quelli di Giotto e del Beato Angelico, nei quali paesaggio e architetture vengono riproposti da una scena all’altra. Da Giotto derivano le raffigurazioni della fuga in Egitto e dell’entrata di Cristo a Gerusalemme. Nella scena di Cristo nell’orto del Getsemani vi sono attinenze con le opere di Mantegna e di Giovanni Bellini sul medesimo tema. Mantegna è il riferimento tragico per la Mater dolorosa che assiste alla morte del figlio, la danza di Salomé fruscia il suo richiamo di morte da Filippo Lippi, la decollazione del Battista schizza sangue da un quadro di Caravaggio.

Fotogramma dal cortometraggio La ricotta di Pier Paolo Pasolini, parte del film RoGoPaG, 1963
Pontormo, Deposizione, 1526-1528, tempera su tavola. Firenze, chiesa di Santa Felicita

Con un manifesto raffigurante Las Meninas di Velázquez a pubblicizzare il film Che cosa sono le nuvole? (1967) entro il film stesso, Pasolini avverte, in un approccio metatestuale, che, come il quadro, la storia filmica di una compagnia di marionette impegnate nell’Otello, è una rappresentazione nella rappresentazione.

Teorema (1968) col piano-sequenza finale della spogliazione dalle vesti di Massimo Girotti ripropone la nudità dell’anima dei fioretti in pittura di S. Francesco.

Porcile (1968-69) cita il Quarto stato di Pellizza da Volpedo quando una delegazione di contadini si reca nella villa del padrone-Klotz per riferire dell’orribile fine fatta, nel porcile, dal giovane Julian. 

Pasolini aveva trovato la propria immagine speculare nel protagonista de La fucina di Vulcano di Velázquez, anche perché dipinto a Roma con modelli presi dagli strati sociali più poveri. Ne Il Decameron (1970-71), con estraniata immediatezza fisiognomica da encausto pompeiano, Pasolini aggiunge una storia all’originale di Boccaccio interpretando un allievo di Giotto, ruolo rifiutato dal poeta Sandro Penna, con grembiule di cuoio e fascia bianca sulla fronte proprio come quel Vulcano, riassumendo così in chiave autobiografica il rapporto tra la vita, il sogno e l’arte: “Perché realizzare un’opera, quando è così bello sognarla soltanto?”. Sulle pareti di una chiesa napoletana dipinge due episodi della vita di un santo nei modi giotteschi di Bernardo Daddi, Agnolo Gaddi, Altichiero. Nella sequenza dell’ultimo episodio al pittore compare in sogno una complessa macchina scenica con un “materno” Giudizio Universale in cui Paradiso e Inferno sono fusi animatamente con al centro la figura in trono della Madonna col Bambino rinchiusa nella Mandorla (una celestiale Silvana Mangano impersona la Madonna) anziché l’immagine giudicante del Signore Iddio del modello giottesco della Cappella degli Scrovegni di Padova, da cui in una libera ricomposizione prende anche il coro angelico, i peccatori impiccati, gli uomini-diavoli, le donne piangenti, il ragazzo che regge sulla spalla il modelletto di una chiesa.

Ne I racconti di Canterbury (1971-72) motivi di Bosch, Bruegel, Dürer, Paolo Uccello, Gainsborough ricostruiscono con colte contaminazioni il clima del Trecento inglese; i citati affreschi di Giovanni da Modena in San Petronio a Bologna col gigantesco Lucifero e gli irriverenti carri carnevaleschi viareggini ispirano la grottesca scena infernale alla fine coi frati defecati dal demonio.

La pittura orientalista di Delacroix e di Pasini, e i miniaturisti arabi e persiani affiorano ne Il fiore delle Mille e una notte (1973-74).

Fotogramma dal film di Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, 1975. Opere futuriste alla parete

Salò o le centoventi giornate di Sodoma (1975), film funebre ed elegante, rappresenta per metafore il rapporto sadico che ha il potere nella società capitalistica coi suoi sottoposti; un pretesto per Pasolini per esternare la sofferenza per l’umanità occidentale irrimediabilmente votata a soggiacere al consumismo più sfrenato. In un raffinato palazzo sequestrato a un intellettuale, l’arte fa da sfondo alle torture psicologiche e fisiche dei potenti (il duca, il monsignore, l’eccellenza, il presidente) sui giovani schiavizzati: affreschi di Léger e decorazioni murali futuriste, quadri di Feininger, Severini, Duchamp, il Ciclista di Sironi, sculture quattrocentesche, sedie Mackintosh. La disposizione degli attori negli interni è progettata quasi facessero parte del mobilio della casa, a volte composti a trittico pittorico, con ragazzi in pose manieristico-michelangiolesche; scene di sopraffazione simili a installazioni/performance contemporanee, anonimi accumuli di corpi denudati senz’anima e senza volto anticipano le cataste di ossa spolpate di Marina Abramovic.

L’estremo tableau vivant è la morte caravaggesca del regista a Ostia.

Sintesi del testo di Stefano Roffi pubblicato nel catalogo della mostra della Fondazione Magnani-Rocca  Pier Paolo Pasolini. Fotogrammi di Pittura (Silvana Editoriale, 2021)


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